domenica 20 novembre 2016

Corriere La Lettura 20.11.16
È il mondo che imita la mappa
La rappresentazione del territorio è una forma di interpretazione della realtà che in fondo
la plasma. I Romani lo sapevano. Infatti «vincevano seduti», prima di combattere
di Franco Farinelli

Tolomeo intuì per primo che non sono le dimensioni di un globo a determinare la sua utilità: meglio un atlante. E Bacone raccoglieva la verità su una cartina come si vendemmia l’uva

Per Marco Terenzio Varrone i Romani «vincevano seduti». Espressione sibillina, la cui spiegazione si deve, duemila anni dopo, all’intelligenza americana più lucida del proprio tempo, quella di Charles Sanders Peirce. In un articolo apparso su «The Monist» nel 1906 Peirce finge un dialogo con «un glorioso Generale».
Il tema è: perché costruire un diagramma, uno schema grafico, non basta soltanto pensare? Peirce risponde che in tal caso i militari non avrebbero bisogno di nessuna mappa, perché il terreno rappresentato dalle carte risulta già perfettamente visibile davanti ai loro occhi. Al che il generale ribatte che le carte geografiche servono per conficcarci gli spilli con cui segnare le previsioni degli spostamenti degli eserciti in guerra, le loro probabili future mosse. Fa allora notare Peirce che ciò corrisponde proprio all’utilità di un diagramma, modello per esperimenti mentali in cui le variazioni di un singolo punto determinano complessi mutamenti (difficilmente prevedibili a priori) nel sistema dei rapporti reciproci delle differenti parti. E aggiunge che tali esperimenti equivalgono a quelli che nelle ricerche fisiche o chimiche si fanno sulle cose concrete, perché in ogni caso si riferiscono alla «forma di una relazione».
Il dialogo prosegue, ma intanto si è compreso la ragione delle vittorie romane da fermo: i Romani prevalgono perché, prima ancora di iniziare a combattere, hanno già sperimentato sulla carta tutte le forme delle possibili relazioni. Va dunque rovesciata l’idea che a scuola ci hanno instillato, per cui una mappa è la semplice copia di quel che esiste. Al contrario, è quel che esiste a essere la copia della mappa, perché ne riproduce la logica interna. E ciò vale non soltanto nel caso del progetto di un architetto, ma anche per ogni evento o decisione che si configura in apparenza come frutto di una scelta razionale.
Prima ancora di Peirce l’aveva compreso, ma senza dirlo, il più grande geografo dell’antichità, l’africano Tolomeo, che un secolo dopo Varrone illustra molto bene, nel suo manuale, il senso del rapporto tra cartografia e immobilità. La Terra è un globo, spiega Tolomeo, ma che ve ne fate di un modello davvero fedele della realtà? E continua, in puro stile cibernetico: più il globo è grande, cioè fedele, più esso è scomodo, perché per trovarvi quello che interessa bisogna di continuo girargli intorno, oppure farlo ruotare su se stesso a forza di braccia. Di qui il consiglio di fare invece delle mappe: così si avrà subito a colpo d’occhio tutto quel che serve, e senza alzarsi dal proprio scranno. È già l’Ariosto delle Satire , quello che all’inizio del Cinquecento lascia volentieri agli altri la fatica di andare in giro per il mondo, perché egli trova molto più comodo volteggiare «sicuro in su le carte» del suo «Ptolomeo», del suo atlante. O, se si vuole, è l’inizio della digitalizzazione, che è nient’altro che il tentativo di sottrarre il funzionamento del mondo alle intemperie del mondo stesso, come ha spiegato John Haugeland.
Solo una guerra impegnativa consente l’affermazione di una grande innovazione. Per quanto riguarda l’uso moderno delle mappe la guerra in questione fu, nella prima metà del Seicento, quella dei Trent’anni, nel corso della quale il conte duca Olivares allestisce a Madrid la sua stanza delle carte geografiche, mentre invece il re Gustavo di Svezia, che ne era privo, non riuscì a trar vantaggio dalle sue imprese, vincendo battaglie però perdendo la guerra stessa. Ma poiché tutta la tradizione moderna deriva da Tolomeo, si comprende come proprio dall’Italia tolemaica prenda le mosse l’esemplare e raccolta mostra, pensata da Massimo Rossi e ospitata a Treviso dalla Fondazione Benetton, sul rapporto tra la cartografia e la nostra Grande guerra.
Come già il titolo avvisa ( La geografia serve a fare la guerra? ) il primo conflitto mondiale è il campo d’illustrazione di una considerazione più vasta. Che la geografia serva, come tutta la scienza, a fare la guerra è banale: Minerva, dea di ogni sapere, nasce armata dalla testa di Giove. Meno scontata è l’analisi del dispositivo cartografico come agenzia che produce pensiero, come macchina da cui discendono tutte le altre macchine, quelle ideative e quelle materiali. Così le tre rigorose stanze di cui l’esposizione si compone, apposta concepite per l’agio della riflessione piuttosto che per la varietà degli effetti, si prestano ad almeno quattro diversi percorsi mentali, scanditi da una ventina di tappe. O meglio: ognuno della dozzina e mezzo di documenti si presta a una lettura su almeno quattro livelli.
Il primo, più immediato, riguarda la progressiva trasformazione della nostra penisola e della sua posizione da tolemaica striminzita gambetta, che pare stia per dare un colpo di tacco all’opposta costa dell’Illiria, alla molto più geometrica immagine dell’inizio del Novecento.
Il secondo itinerario esplora la varietà dei differenti punti di vista con cui nel corso dei secoli il nostro Paese è stato raffigurato.
Il terzo si concentra sulla specificità dello sguardo militare, relativo a quello che Michel Foucault chiamava «il sapere dell’armata».
L’ultimo e più impegnativo verte sulla natura per così dire squisitamente cognitiva di ogni singola rappresentazione cartografica, investe la sua funzione di «talamo per le nozze della mente con l’universo» come all’inizio del Seicento diceva Francesco Bacone a proposito delle tavole. E alludeva, appunto come Peirce, alla loro capacità di guidare l’intelletto nella costruzione degli assiomi che da solo esso sarebbe incapace di creare.
Bacone è moderno proprio perché pensa che una volta ridotta a mappa — cioè a tavola — la realtà, la verità può essere raccolta su di essa quasi in maniera spontanea, come in autunno si vendemmiano le uve. Naturalmente non è più così, non a caso siamo postmoderni e viviamo al tempo della globalizzazione, che (come dice la parola) costringe a ripensare la Terra non più in funzione di un’unica versione, ma della sua forma sferica, composta a differenza della mappa da innumerevoli facce: il che esclude la possibilità che l’intero meccanismo del mondo possa dipendere da un unico principio.
Volendo, le carte esposte alla fondazione Benetton danno l’impressione di un senso complessivo, quello della quasi evolutiva crescente riduzione della faccia della Terra a un unico gigantesco spazio, a un ambito sempre più sistematicamente regolato da una sempre più rigorosa misura metrica lineare standard. E in effetti è anche così. Ma alla fine, con un autentico colpo di scena, si viene a conoscenza della dislocazione delle colombaie mobili sul fronte del Piave, e delle soluzioni escogitate un secolo fa dallo stato maggiore per invitare le popolazioni dei territori occupati a trasmettere informazioni attraverso i colombi viaggiatori, addestrati a tornare nei luoghi di nascita. Luoghi, vale a dire l’esatto contrario dello spazio: non l’ambito unico dell’equivalenza generale, ma invece la pluralità di parti l’un l’altra irriducibili perché dotate di esclusive qualità, di specifiche e distintive proprietà. E si apprende che ancora oggi i colombi potrebbero riuscire preziosi nel caso di blocco della Rete e delle comunicazioni.
Ecco perché la geografia, e più in generale la cultura, serve a fare la guerra: esse sono la stessa cosa, nel senso che così come in realtà di un conflitto non può mai conoscere con certezza l’esito prima che finisca, allo stesso modo la cultura è nient’altro che sapere che non si può mai dire come andrà a finire. È la coscienza che un’altra mossa è sempre possibile.