Corriere La Lettura 20.11.16
Il «medioevo» del Seicento
L’altro pregiudizio A prestare ascolto a certi appassionati indagatori di epoche oscure,
i più spaventosi flagelli si sarebbero abbattuti sul genere umano intorno all’anno Mille,
tra
la fine del mondo antico e l’inizio di quello moderno. Marcello Simoni,
del quale è appena uscito il nuovo romanzo sulla Roma del XIII
giubileo (1625), ricorda qui che le cose non andarono proprio così:
streghe, demoni e tribunali dell’inquisizione abbondarono anche molto
dopo
di Marcello Simoni
Malgrado lo sfarzo del
Barocco, il XVII secolo non si può certo definire felice: guerre,
carestie e tendenze artistiche sono un terreno adatto a coltivare incubi
Se
si volesse scrivere un thriller ambientato nel passato, e infondergli
il giusto tocco di oscurità, sarebbe arduo scegliere l’epoca storica più
adatta. A prestare ascolto a certi appassionati del Medioevo, i più
spaventosi flagelli si sarebbero abbattuti sul genere umano tra la fine
del mondo antico e l’inizio dell’età moderna. L’apocalisse, in sostanza,
sarebbe già avvenuta intorno all’anno Mille. Scavando a fondo, però, ci
si rende conto che le cose andarono diversamente. L’evo di mezzo subì
la sua buona dose di barbarie, è incontestabile, ma assistette anche
alla fioritura delle università, dei comuni e degli scriptoria
monastici. La peste nera, per cui è spesso citato, ne segna soltanto
l’autunno. Se poi fossimo in vena di fare i pignoli, potremmo scovare
dei clamorosi equivoci. Basti pensare ad alcuni fenomeni di lunga durata
che incisero in negativo sull’evoluzione religiosa, antropologica e
sociale dell’Occidente. Fenomeni giunti a maturazione all’inizio del
Seicento, in pieno Barocco.
In molti, a questo punto, citeranno
con sdegno il Cogito ergo sum e il teorema di Pascal, innalzando i
vessilli della ragione e del progresso. E in una certa misura non
avranno neppure torto. Il Secolo di Ferro apre le porte a un pensiero
nuovo e a una nuova dinamica degli Stati e della politica. Tuttavia non
brillò soltanto per i lumi dell’intelletto, ma anche per quelli dei
roghi. I fenomeni di lunga durata a cui accennavo sono infatti
l’inquisizione e la stregoneria. Spesso, a torto, releghiamo queste
«macchie nere» della storia al Medioevo, dimentichi del fatto che stiamo
riciclando un cliché mutuato dal Romanticismo. È da lì che proviene la
formulazione dei cosiddetti «secoli bui», insieme a una fascinazione
letteraria veicolata dal nascente romanzo storico, i cui più celebri
esempi sono Ivanhoe e l’ Adelchi manzoniano.
Ma se guardiamo oltre
Notre-Dame di Victor Hugo, scopriremo che la paura delle streghe non
appartiene all’epoca feudale, durante la quale si era più inclini a far
strage di eretici e di saraceni. Catari, Valdesi, Dolciniani, questi
sono i nomi attribuiti al Diavolo in quei tempi. Di contro, è l’età
moderna a generare le fantasie più oscene e suggestive sulle adoratrici
di Diana, rielaborando i concetti della strix dell’epoca classica, del
Sabba, dei conciliaboli nelle foreste e delle confraternite di donne
dedite a corrompere la purezza — e la noia — dell’ordinamento sociale
moderno.
Delle «femmine malefiche» ci parlano numerosi teologi,
demonologi e trattatisti del Seicento. Alcuni di questi sono
inquisitori, come il milanese Francesco Maria Guaccio, che scrisse il
Compendium maleficarum basandosi su fonti francesi e tedesche, ma anche
su una persecuzione che lui stesso compì in Renania. In alcune
illustrazioni del suo trattato compaiono donne tramutate in animali
selvatici, altre intente ad arrostire bambini e apparizioni del Diavolo
voltato di schiena, per farsi baciare l’ano dai suoi adepti. La lista
tuttavia si prolunga all’inverosimile. Partendo dalla fine del
Cinquecento con la Demonolatria di Nicolas Rémy, si continua con le
disquisizioni del gesuita spagnolo Martín Del Rio, autore di
un’enciclopedia di magia nera divenuta un autentico bestseller (fu
ristampata una ventina di volte), e con il Tableau de l’inconstance di
Pierre de Lancre, un giudice francese responsabile di un’estesa caccia
alle streghe avvenuta nei paesi baschi. Si rammenti inoltre la
diffusione del Formicarius del domenicano Johannes Nider, ripescato dal
Quattrocento e dedicato, in parte, agli «inganni dei malefici».
Per
farla breve, abbiamo superato di gran lunga le ossessioni degli
inquisitori medievali Nicolas Eymerich e Bernardo Gui, e pure i delitti
pseudo-apocalittici descritti da Umberto Eco nel Nome della rosa . Se il
Sant’Uffizio nasce nel XIII secolo, è a cavallo del Concilio di Trento
che giunge al suo massimo potere. Ed è proprio a partire da questo
momento che intraprende, in modo tanto sistematico quanto spietato, una
guerra intesa da un lato a uniformare la devozione cristiana e
dall’altro a castrare ogni residuo folklorico (paganeggiante)
sopravvissuto alle epoche precedenti.
Come effetto di ogni azione
repressiva, anche in questo caso assistiamo a un rigurgito di fantasie
deliranti degne della pittura tardogotica di Hieronymus Bosch. Fantasie
che sembrano perseguitare più i cacciatori delle prede, dal momento che è
proprio nei loro scritti che prendono forma. Del resto, malgrado lo
sfarzo del Barocco, il Seicento non si può certo definire un secolo
felice. Gravato dalla Guerra dei Trent’anni, dalla carestia e da una
corrente artistica intrisa di sensibilità macabra, rappresenta un
terreno più che adatto a coltivare incubi. Così si mise a punto, per la
prima volta nella storia, un efficentissimo sistema burocratico e di
polizia volto a sopprimere i crimini più turpi riconosciuti dalla
Chiesa. Le indagini si svolsero mediante la regola del sospetto,
celebrata dalla bolla Licet ab initio di Paolo III (1542) e supportata
dai non valori dell’intolleranza e della paura del diverso. Le vittime
però non furono le sole, presunte streghe. Una delle categorie più a
rischio fu quella di scrittori e tipografi, divulgatori di un libero
pensiero che sfidava i dettami delle sfere ecclesiastiche. Anche gli
illustratori, i gazzettieri, gli attori e persino i compositori di
musica non ebbero vita facile.
Stanchi di bruciare gli uomini, si
passò quindi ai libri. La Congregazione dell’Indice, nata in clima
tridentino da una costola dell’Inquisizione, avviò una tale opera di
controllo, emendazione e censura da lasciar basiti molti eruditi del
tempo. Non furono soltanto i testi di Calvino e di Lutero a finire tra
le fiamme, ma anche quelli di Guglielmo di Occam, Erasmo da Rotterdam,
Boccaccio, il De monarchia di Dante e le Satire dell’Ariosto. In uno
scambio epistolare tra il segretario cardinalizio Girolamo Aleandro e
l’astronomo francese Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, si arrivò a
lamentarsi: «In queste nostre parti (Roma) non si usa stampar libri
curiosi, anzi il negotio va tanto restringendosi, che credo ci ridurremo
solamente a stampar i messali, e breviari».
Parlavamo però di
scrivere romanzi, e a ben vedere sarebbe scortese dilungarsi sul Secolo
di Ferro senza spendere una parola sulle opere letterarie che
contribuirono a dargli la fama di periodo terribile. Dumas prima di
tutti, con I tre moschettieri , descrive un’epoca fatta di
avvelenamenti, prelati ombrosi e donne più imprevedibili di qualsiasi
fattucchiera. Si tratta di un mondo più complesso e tenebroso del
Medioevo. Gli eroi che lo popolano non corrispondono al profilo del
cavaliere senza macchia ma, D’Artagnan docet, a quello dell’impertinente
con il «genio dell’intrigo». Dell’intrigo e della lingua tagliente, se
tiriamo in ballo Cyrano de Bergerac, quello della commedia teatrale di
Rostand e pure l’uomo in carne e ossa.
Se infatti il Seicento è un
secolo pericoloso per sognare, dà voce al più grande sognatore di tutti
i tempi. Nei suoi viaggi metafisici, Cyrano inseguì la luna più di
qualsiasi alchimista o scienziato. Fu filosofo, libertino e narratore
dell’immaginifico, l’unico capace di scoperchiare senza filtri il
calderone visionario che risiede nel cuore dell’uomo del XVII secolo. E
se incarnò l’ideale del linguaggio arguto declamato dalla poesia
dell’epoca, nei momenti in cui la favella non gli bastò combatté
duellando in punta di spada, o di naso, per opporsi alla grettezza del
mondo.
Del resto ogni epoca ha il proprio eroe, o meglio il suo
simbolo dell’eroismo. Se per il Medioevo fu il conte Orlando, «ucciso»
da Cervantes, per il Secolo di Ferro serve qualcuno in grado di
ribaltare la pesantezza della guerra, dell’inquisizione e della censura.
In sostanza, un Perseo di calviniana leggerezza che tenderei a
riconoscere proprio in Cyrano. In alternativa si dovrebbe cercare
nell’ombra, regno incontrastato di un (anti)eroe nato sul chiudersi del
Cinquecento per dominare le sale di teatro del secolo successivo. Mi
riferisco al Faust di Marlowe, il doctor diaboli che vendette l’anima a
Satana pur di accedere a una sapienza sconfinata. E con questa figura si
va ben oltre il simbolo, permettendoci di accedere sia alla stregoneria
sia all’alchimia, tanto amata durante tutta l’età moderna (basti
pensare all’exploit dei Rosa Croce).
Non serve molta fantasia, a
questo punto, per immaginarsi gabinetti alchemici celati in monasteri,
cripte e palazzi cardinalizi. Anche a Roma, sotto un sole che tinge
d’oro le cupole vaticane.