domenica 13 novembre 2016

Corriere La Lettura 13.11.16
La pancia batte la testa: la vera astuzia che accecò Polifemo
Interpretazioni La fuga di Ulisse dal Ciclope si rivela
il gesto che ridefinisce lo spazio e i valori della società ellenica
di Franco Farinelli

Che cosa sarebbe successo se Ulisse, intrappolato nella grotta, avesse detto a Polifemo non di chiamarsi Nessuno, bensì il suo vero nome? Domanda secca ma rivelatrice per una storia antichissima e tra le più note, ma ancora da comprendere.
A ragionare in maniera controfattuale la risposta è sconcertante: se Ulisse avesse detto di chiamarsi Ulisse, i greci si sarebbero salvati molto prima, e molto meglio. Questo perché gli altri giganti avrebbero allora soccorso (a differenza di quel che invece avviene) l’ormai cieco loro simile, e per farlo sarebbero stati costretti a rimuovere, dall’esterno, il masso che ostruiva la prigione dei nostri eroi: ma così facendo avrebbero appunto risolto il mortale problema, schiudendo loro l’unica possibile via di fuga.
La scena in questione si svolge di notte. I giganti non avevano mai visto i greci. Lo stesso Polifemo, quando alla fine Ulisse gli rivelerà finalmente il vero nome, ricorderà l’antica profezia relativa al suo arrivo, subito aggiungendo di aver sempre creduto che a privarlo della vista sarebbe stato un uomo molto grande e vigoroso, non certo uno piccolo e debole come di fatto Ulisse gli appare. Insomma: se i Ciclopi avessero aperto la grotta, i greci avrebbero potuto svignarsela senza essere nemmeno notati. E proprio il fatto che le cose invece siano andate diversamente è spia che il significato della storia è un altro, che l’astuzia di Ulisse non è quella creduta.
Il formalismo che assicura la salvezza non riguarda la relazione tra il linguaggio e le cose del mondo, come anche Max Horkheimer e Theodor W. Adorno a metà del secolo scorso hanno ripetuto, non coincide con la scoperta del possibile gioco tra le parole e le cose, ma riguarda la relazione tra il mondo stesso e i modelli mentali (e non linguistici) impiegati per addomesticarlo.
Altro interrogativo che nessun commento o scolio antico sembra porsi: perché Polifemo non è in grado di accorgersi dei suoi nemici celati sotto gli animali, pur cercandoli disperatamente? Fin qui è bastata la spiegazione che lo stesso Ulisse, nel racconto, lascia cadere, risolvendola con un epiteto: Polifemo sarebbe, semplicemente, «uno stolto». Ulisse ha legato ognuno dei suoi compagni sotto una pecora che sta al centro di un gruppo di tre bestie a loro volta legate insieme: seduto sulla soglia con le spalle rivolte verso l’esterno, l’orbo «mostro dal pensiero irragionevole» potrebbe aver tastato lateralmente e non frontalmente gli animali, e perciò non sarebbe arrivato, per l’insufficiente lunghezza del suo braccio, a brancicare il minuscolo greco nascosto sotto l’animale di mezzo. Ma nel caso dello stesso Ulisse, aggrappato sotto l’unico ariete del gregge, la spiegazione comunque non regge: se davvero Polifemo avesse ispezionato con la mano anche il ventre degli animali, si sarebbe dovuto per forza accorgere della presenza del capo dei suoi nemici, sospeso a pancia in su sotto un solo quadrupede.
La questione è decisamente molto più complicata di come fin qui l’abbiamo pensata, e riguarda l’opposizione tra due differenti concezioni del mondo.
Ha spiegato Jean-Pierre Vernant che per gli antichi Greci il mondo era (esattamente come oggi) un faccenda costituita da gradienti di autorità, da rapporti di forza, da relazioni di potere fondate sul principio che chi sta sopra comanda e chi sta sotto ubbidisce, dunque sull’esclusiva esistenza di livelli. Il mondo di Polifemo, letteralmente pre-politico, è soltanto questo, è il grado zero del mondo, retto dalla pura forza fisica, dal kràtos , e privo di città, di assemblee, di leggi, di vita sociale, di tradizioni, tutti elementi invece presenti e determinanti in quello greco. Attività sconosciute ai giganti, la navigazione e il commercio fondano invece la tecnica di cui Ulisse è portatore, tecnica opposta a quella dei giganti come il valore di scambio si oppone al valore d’uso, come l’economia di mercato a quella dell’autoconsumo. Il mondo dei marinai è un ambito aperto e non chiuso come quello ciclopico. E Ulisse, presentato nell’ Odissea con voluto anacronismo come l’inventore della navigazione astronomica, figura allo stesso modo come colui che applica non più soltanto al cielo ma alla faccia della Terra il modello che quest’ultima implica, e che comporta operativamente la riduzione di questa a tempo di percorrenza, la sua trasformazione, appunto secondo la logica del mercato, nella versione orizzontale del mondo: la rappresentazione che, innestandosi su quella semplicemente gerarchica e verticale dei giganti e incrinandone l’assolutezza, la condanna alla sconfitta segnando in prospettiva il declino di ogni differenza e valore locale.
Ecco perché il Ciclope insomma non si accorge della presenza dei suoi nemici: non perché trascuri il controllo, o perché impossibilitato a compiere la verifica che ha in mente a motivo dell’insufficiente lunghezza del braccio o della sua cecità; ma al contrario perché egli compie l’unica forma di verifica che è in grado di concepire, quella di chi si limita ad abitare il mondo, e pertanto non vede altro all’infuori dei livelli, vale a dire della gerarchia e della scala di comando. Perciò si limita a tastare il capo e il dorso delle bestie, perché non può pensare che il livello inferiore, la pancia, possa contraddire quel che sta sopra, il livello superiore, che in ogni struttura gerarchica risponde sempre per tutto il complesso.
All’opposto, soltanto la strumentale messa in parentesi della natura gerarchico-verticale del mondo consente la riduzione a semplice dimensione di ogni livello. E senza tale astrazione, che corrisponde alla scoperta e all’aggiunta al mondo di un’inedita versione del mondo stesso, l’astuzia di Ulisse resterebbe inconcepibile.
Proprio in tale astrazione, e non nella scoperta del possibile gioco tra i nomi e le cose, consiste l’autentica e formidabile invenzione formalistica del figlio di Laerte: che è l’invenzione, in una parola, dello spazio. Cioè della modernità. E in questo i filosofi di Francoforte avevano invece ragione, anche se non sapevano davvero perché.