Corriere 9.11.16
L’ultima lettera di Mata Hari
Paulo Coelho racconta la storia della danzatrice olandese cominciando dalla fine
di Paulo Coelho
Parigi, 15 ottobre 1917 – Anton Fisherman con Henry Wales, per l’International News Service.
Poco
prima delle cinque del mattino, un gruppo di diciotto uomini — in gran
parte ufficiali dell’esercito francese — salì al secondo piano di
Saint-Lazare, il penitenziario femminile di Parigi. Preceduti da un
secondino che reggeva una torcia con cui accendeva le lampade, si
fermarono davanti alla cella numero 12.
Erano le monache a
occuparsi di quel posto. Suor Léonide aprì la porta e chiese a tutti di
attendere fuori. Entrò, sfregò un fiammifero sulla parete e accese la
lampada della stanzetta. Poi chiamò una delle sorelle ad aiutarla.
Piano
e delicatamente, suor Léonide cinse con un braccio il corpo
addormentato della donna: stentava a svegliarsi, quasi non fosse
interessata al mondo circostante. Quando aprì gli occhi, secondo la
testimonianza delle monache, sembrò emergere da un sonno tranquillo. E
si mantenne serena anche quando apprese che la domanda di grazia
presentata alcuni giorni prima al presidente della Repubblica era stata
respinta. È impossibile dire se provò tristezza o sollievo per il fatto
che tutto fosse ormai prossimo alla fine.
A un cenno di suor
Léonide, padre Arboux entrò nella cella insieme al capitano Bouchardon e
all’avvocato Clunet. A questi, la prigioniera consegnò una lunga
lettera-testamento, che aveva scritto nel corso dell’ultima settimana, e
due buste marroni contenenti alcuni ritagli.
Infilò un paio di
calze di seta nera — la qual cosa aveva una nota grottesca in una simile
circostanza —, calzò scarpe con tacco alto e nastri, e si alzò dalla
brandina. Da un attaccapanni, sistemato in un angolo della cella, prese
un lungo cappotto di pelle, con le maniche e il collo ornati di
pelliccia, probabilmente di volpe. Lo indossò sopra il pesante chimono
di seta con il quale aveva dormito.
Aveva i capelli in disordine.
Dopo averli pettinati con grande cura, li fermò sulla nuca. Si mise un
cappello di paglia e, affinché il vento non lo portasse via quando si
sarebbe trovata in aperta campagna, là dove stava per essere condotta,
lo fissò con un nastro di seta legato sotto al mento.
Con un gesto
lento, si chinò per prendere un paio di guanti di pelle nera. Poi,
mostrando una serena indifferenza, si rivolse ai presenti, con voce
calma:
«Sono pronta».
Tutti lasciarono la cella del carcere
di Saint-Lazare e si diressero verso un furgone cellulare che li
attendeva con il motore acceso, pronto a condurli nel luogo dove si era
radunato un plotone di esecuzione.
Il veicolo partì a gran
velocità — superiore a quella consentita — e, attraversando le strade
della città ancora addormentata, si diresse verso il castello di
Vincennes, dove un tempo sorgeva un forte quasi distrutto dai prussiani
durante l’assedio di Parigi del 1870.
Venti minuti dopo, il
furgone si fermò e tutti scesero. Mata Hari fu l’ultima a lasciare
l’abitacolo. I soldati erano già schierati. Di lato al plotone di
esecuzione, formato da dodici zuavi, c’era un ufficiale con la spada
sguainata.
Mentre padre Arboux, affiancato dalle due monache,
stava parlando con la condannata, si avvicinò un tenente francese, il
quale porse un panno bianco a una delle suore, dicendo:
«Per cortesia, copritele gli occhi».
«Devo proprio essere bendata?» domandò Mata Hari, osservando il pezzo di stoffa.
L’avvocato Clunet guardò l’ufficiale con espressione interrogativa.
«Non è obbligatorio. È una scelta che spetta a Madame», rispose il tenente.
Mata
Hari non fu legata né bendata. Impettita, con un’aria di apparente
tranquillità, si ritrovò a fissare i suoi giustizieri mentre il prete,
le suore, il tenente e l’avvocato si allontanavano.
Il comandante
del plotone d’esecuzione, che sorvegliava attentamente gli uomini per
evitare che controllassero i propri fucili — la prassi vuole che uno dei
fucili sia caricato con un colpo a salve, cosicché tutti possano
pensare di non aver sparato il proiettile mortale —, parve rilassarsi.
Presto sarebbe stato tutto finito.
«Plotone, attenti!»
I dodici zuavi assunsero una postura rigida e appoggiarono i fucili sulla spalla.
«Caricare!»
Lei non mosse un muscolo.
L’ufficiale si diresse verso un punto dove tutti i soldati potessero vederlo e levò in alto la spada.
«Puntare!»
La donna rimase impassibile, senza rivelare alcun segno di paura. La spada si abbassò, fendendo l’aria con un movimento ad arco.
«Fuoco!»
Mentre
una fragorosa raffica di spari attraversava l’aria, il sole ormai sopra
l’orizzonte illuminò le fiammate e i nugoli di fumo che proruppero dai
fucili. Poi, con un movimento in perfetto sincrono, i soldati poggiarono
le armi a terra.
Per un secondo, Mata Hari rimase ancora ritta.
Non stramazzò al suolo come accade nei film, quando gli uomini vengono
colpiti dalle pallottole. Non cadde in avanti né all’indietro; non agitò
le braccia né verso l’alto né di fianco. Sembrò accasciarsi su se
stessa, con il capo eretto e gli occhi aperti. Uno dei soldati svenne.
Le
ginocchia della vittima cedettero, e il suo corpo ricadde sulla destra;
le gambe si piegarono sotto il lungo cappotto di pelle. Mata Hari
giacque immobile, il viso rivolto al cielo.
Un terzo ufficiale
estrasse la rivoltella da una fondina fissata alla bandoliera e,
accompagnato da un graduato, si avviò verso il corpo inerte.
Si
chinò e accostò la canna della rivoltella alla tempia della spia,
premurandosi di non sfiorare neppure la pelle. Poi premette il
grilletto: la pallottola attraversò il cervello della morta. Tornò sui
suoi passi e, rivolgendosi ai presenti con tono solenne, dichiarò:
«Mata Hari è morta».
(traduzione di Rita Desti )