mercoledì 9 novembre 2016

Corriere 9.11.16
Predestinati alla bontà dai nostri geni
di Umberto Veronesi

L’ uomo per sua natura è sempre stato animato da un senso di generosità e di altruismo. Se gettiamo uno sguardo alle nostre origini, scopriamo che nel processo evolutivo degli esseri viventi la selezione della specie umana ha rappresentato un elemento di rottura. Quando le condizioni non erano idonee alla vita, soprattutto alla vita dei più deboli, delle donne e dei bambini, l’uomo le ha trasformate: il fuoco, i ricoveri, le semine per fare scorta di cibo sono state altrettante sfide che l’uomo primitivo ha lanciato alla pura e semplice selezione naturale. Ad animarlo in queste lotte era un senso anche di altruismo verso il prossimo più debole e inerme, la capacità di distinguere ciò che era giusto e ciò che non lo era.
Secondo l’antropologo Donald E. Brown, dell’Università della California, alcune disposizioni d’animo, cioè quella che noi chiamiamo bontà, come l’empatia, la generosità, il riconoscimento dei diritti altrui, la proscrizione di violenze come l’omicidio e lo stupro, hanno sempre albergato nel cuore dell’uomo, anche quello delle caverne. Che era fondamentalmente un animo buono e pacifico. Infatti l’uomo ha scoperto da subito la dimensione sociale, che è cosa diversa dall’organizzazione comunitaria delle api o delle formiche, ed è cosa diversa dalle gerarchie che guidano i branchi di animali. La creazione della famiglia, la crescita della prole, la difesa dei deboli sono state fin dall’inizio forme di collaborazione tra gli individui che poi si sono aggregati in clan, quindi in tribù, fino a diventare popoli. E anche quella che per me è la forma eccelsa di bontà, cioè la ricerca e il mantenimento della pace, è sempre stata connaturale alla specie umana.
Sì, la specie umana tende per natura alla pace. Il filosofo Jean-Jacques Rousseau ci ricorda che la guerra è un concetto che non concerne direttamente il rapporto degli uomini tra di loro. Tra semplici uomini non c’è guerra, ma solo contrasto. Da alcuni decenni, soprattutto dopo la scoperta del Dna, la scienza della moderna genetica molecolare e l’antropologia delle più avanzate teorie evoluzionistiche cercano di dare una risposta ad alcune domande fondamentali: dove nasce il nostro senso della bontà? perché siamo buoni? e come sappiamo discernere ciò che è bene da ciò che è male? Sono domande a cui anche l’etica, la filosofia, la religione hanno cercato di dare risposte, spesso parziali, spesso fideistiche.
Nel loro metodo di ricerca sperimentale gli studiosi usano sondaggi statistici su vasta scala (anche con questionari via Internet), in cui vengono proposti dilemmi morali (per esempio: «È giusto sacrificare la vita di una persona per salvarne molte»?). Le risposte sono pressoché univoche, indipendentemente dalla fede religiosa o meno degli intervistati, dal loro grado di cultura e dallo stato economico, dall’età e dal sesso. A dimostrazione, come sostiene Marc Hauser, che alla guida dei nostri giudizi morali c’è una grammatica morale universale, una facoltà della mente che si è evoluta per milioni di anni fino a includere un insieme di principi che tutti ritengono giusto rispettare. Esiste insomma un sesto senso, quello della morale, un organo complesso con precise basi neurologiche che può essere attivato e disattivato al pari di un interruttore. Quando è acceso, il nostro modo di pensare viene guidato da una specifica predisposizione mentale, che ci porta a considerare alcune azioni come immorali («uccidere è sbagliato »), anziché solo discutibili. Gli impulsi della moralità si manifestano fin dall’infanzia. Secondo gli psicologi Elliot Turiel e Judith Smetana, i bambini dell’asilo conoscono già la differenza tra convenzioni sociali e principi morali. Sanno che non è lecito indossare il pigiama a scuola (una convenzione) e anche che non è lecito picchiare un compagno senza ragione (un principio morale). Ma quando si chiede loro se queste azioni sarebbero lecite se il maestro le permettesse, la maggior parte dei bambini risponde che indossare il pigiama sarebbe lecito, ma non prendere a pugni un compagno. Ed esiste una grammatica morale anche negli animali. Secondo lo psicologo-filosofo Jonathan Haidt dell’Università della Virginia (Stati Uniti), l’istinto a rifiutare la violenza è presente anche nelle scimmie reso (il cui genoma è identico per il 98 per cento al nostro), le quali, piuttosto che tirare una catena che dà loro il cibo ma provoca una scossa alla scimmia vicina, rinunciano al cibo. È vero che il gene della bontà non è stato ancora scoperto, ma il senso del bene e dell’altruismo è iscritto nei nostri geni .