Corriere 19.11.16
I referendum come destino
di Francesco Verderami
Nella
storia repubblicana il referendum ha rappresentato l’appuntamento con
il destino per quei politici che sono stati vissuti come «uomini forti».
Fu
la sconfitta nel referendum sul divorzio del 1974 a decretare il
tramonto di Fanfani e della sua epopea nella Dc e nel Paese. Fu il
risultato del referendum sulla preferenza unica del 1991 a invertire la
parabola di Craxi, che aveva raggiunto il suo acme con la vittoria nel
referendum sulla scala mobile del 1985. C’è stato un referendum anche
per Berlusconi, che nel 2006 perse insieme a Bossi la sfida federalista
sulla Devolution. Con questi precedenti Renzi va incontro
all’appuntamento con il suo destino.
Sarà stato per effetto dei
sondaggi, tutti orientati sulla vittoria del No il 4 dicembre, che il
tono della conferenza stampa sui «mille giorni» di governo è parso da
cerimonia degli addii, un resoconto di fine corsa, l’anticipazione di
ciò che farà se la riforma costituzionale verrà bocciata dal corpo
elettorale. Anche se non c’è dubbio che il leader del Pd sfrutterà le
ultime due settimane a disposizione per sovvertire i pronostici e
dimostrare che «ancora una volta erano sbagliati».
Se è chiaro,
fino a un certo punto, cosa farebbe qualora il referendum gli
consegnasse la vittoria, è più complicato stabilire oggi come si
potrebbe comportare in caso di sconfitta. Perché le scelte personali di
un leader politico — in alcuni passaggi — sono soggette alle
responsabilità di cui deve comunque farsi carico, se riveste il ruolo di
presidente del Consiglio. È una vecchia regola che il capo dello Stato
si porta dietro come un precetto, e per quanto Mattarella attenda
l’esito della consultazione e non intenda interferire, di sicuro non
farebbe strappi con la sua storia se fosse chiamato ad agire.
La
Camera dovrebbe licenziare la legge di Stabilità il prossimo fine
settimana: sarebbe un voto parlamentare per mettere in sicurezza la
Finanziaria, se il voto del Paese fosse contrario alle riforme.
Mancherebbe però l’esame del Senato, previsto dopo il referendum, e una
crisi di governo allungherebbe i tempi di approvazione, necessaria entro
fine anno. Ma in un’economia globalizzata, con l’Europa che vigilia sui
conti dello Stato e con l’estrema volatilità dei mercati finanziari,
l’Italia non può permettersi il rischio dell’esercizio provvisorio.
È
un’esigenza primaria che sovrasta i giochi politici, inevitabili se
vincesse il No. Incognite e variabili non sono al momento decifrabili ma
è evidente che una crisi di governo aprirebbe una fase di instabilità:
servirebbe subito un esecutivo per portare a compimento la legge di
Stabilità e per consentire al Parlamento di varare una nuova legge
elettorale. Peccato che — rispetto al passato — non si vedano «riserve
della Repubblica» riconosciute dai partiti, capaci di unire una
maggioranza e di guidare palazzo Chigi: è bastato che si parlasse del
presidente del Senato Grasso per scatenare l’ira dei renziani.
In
ogni caso il risultato referendario darà il via ai regolamenti di conti
nei partiti e negli schieramenti. Se venissero approvate le riforme,
Renzi si intesterebbe il risultato. Vincesse il No, sul carro Grillo
farebbe salire solo Salvini, che infatti non compare nella lista dei
«nostri kamikaze del 4 dicembre»: «D’Alema, Bersani e Berlusconi». In
questo clima andrebbe cercata un’intesa su un nuovo modello di voto che
dovrebbe peraltro tener conto di due Camere con due differenti
elettorati, e di cinque aree politiche di riferimento, con varie destre,
molti centri, due Pd, tre sinistre radicali e un solo Movimento...
Ecco
perché, in alcuni passaggi, le scelte personali di un leader sono
legate anche al ruolo che ricopre. Perciò è complicato stabilire come
potrà comportarsi Renzi in caso di sconfitta. E se è vero che
l’appuntamento con il referendum lo accomuna ad alcuni protagonisti
della storia repubblicana, esistono differenze per nulla marginali. Le
sconfitte di Fanfani e di Berlusconi non scossero i sistemi dell’epoca,
che erano ancora solidi. La debacle di Craxi — che perse dopo aver
invitato gli italiani ad «andare al mare» — coincise invece con l’inizio
della crisi della prima Repubblica. E quanti pensavano di prendere i
frutti di quella sfida, dovettero lasciare ad altri l’intero raccolto.