Corriere 17.11.16
L’autogol del «piano città»: spesi 736 milioni, incassati 173
di Sergio Rizzo
Per avere i fondi pubblici i Comuni hanno arricchito i loro progettisti
L’hanno
battezzato «piano città». Ma sbagliando, e di grosso. Infatti
l’avrebbero dovuto chiamare «piano progettisti». Perché a guadagnarci
sono stati soprattutto loro, invece che le nostre città.
Stiamo
parlando di un decreto legge varato il 22 giugno 2012 dal governo di
Mario Monti, che avevano intitolato «Misure urgenti per la crescita del
Paese». E di misure urgenti, ce n’era (e ce n’è) bisogno eccome.
Soprattutto nei centri urbani, assediati dal degrado e immersi in
un’edilizia spesso orrenda e di qualità assai discutibile.
Ma di
soldini ce n’erano (e ce ne sono) pochi. Così, raschiando il fondo del
barile, si recuperarono circa 200 milioni. Meglio che niente, si
commentò all’epoca: soprattutto considerando le condizioni della nostra
finanza pubblica. Almeno poteva essere un segnale. Accompagnato però da
una prescrizione precisa: i finanziamenti non sarebbero stati destinati a
semplici proposte, bensì a quelle iniziative che fossero assistite da
progetti realmente esistenti e di fatto cantierabili.
La formula
studiata per accedere ai fondi statali era quella della cosiddetta
«tempestiva esecutività» degli interventi. Senza però immaginare le
conseguenze clamorose che queste due parole avrebbero provocato.
I
conti li ha fatti l’Ifel, il centro studi dell’associazione dei comuni
italiani. Al piano città hanno partecipato 457 enti locali, che hanno
presentato progetti per un valore complessivo di circa 20 miliardi di
euro. Una somma enorme, paragonabile alle dimensioni di una manovra da
legge di stabilità. Naturalmente quei soldi non c’erano, e si cominciò
dunque a scremare. Screma oggi, screma domani, i 457 possibili aspiranti
si ridussero ben presto a 28. E dai 20 miliardi di progetti si scese
fatalmente a un miliardo 716 milioni, con una richiesta finanziaria da
parte dei Comuni a valere sugli stanziamenti del piano città pari a 666
milioni.
Troppi anche questi, però. L’esiguità delle risorse a
disposizione ha fatto sì che a questi progetti venissero accordati
finanziamenti statali per 172,8 milioni, dei quali a tutt’oggi risultano
effettivamente impiegati una quindicina di milioni.
In compenso,
però, le parcelle di ingegneri, architetti e professionisti vari, hanno
corso a una velocità sorprendente. L’Ifel ha calcolato che richieste per
20 miliardi dovevano essere supportate da un volume progettuale
imponente. La stima è impressionante: i Comuni avrebbero speso infatti
736 milioni per consentire di incassare appena 172,8 milioni a 28 di
essi. Cifra di cui peraltro è stato finora concretamente utilizzato meno
del dieci per cento.
Che sia un bilancio assurdo e sconfortante
non c’è alcun dubbio. Lo sottolinea nel suo documento anche il centro
studi dell’Anci, sostenendo che «l’espediente», così definisce la
formula della «tempestiva esecutività» a cui era condizionata la
concessione dei contributi, non soltanto «ha impedito la strutturazione
di virtuosi rapporti di partenariato pubblico-privato», ma ha anche
«costretto gli enti locali a stravolgere» la programmazione ordinaria
degli interventi «per inseguire le risorse del bando a prescindere dalle
proprie reali necessità». Con il risultato che alla fine sono stati
premiati molti progetti che erano già nei cassetti «impedendo il
miglioramento della qualità progettuale».
Non bastasse ancora,
aggiunge l’Ifel, «ha finito per incentivare condotte ingannevoli
favorendo un rapporto competitivo» fra lo stato e i Comuni. Insomma, il
solito pasticcio. A dimostrazione del fatto che anche le migliori
intenzioni, talvolta, possono dare pessimi risultati se si supera il
confine (sempre piuttosto labile in questo Paese) del buonsenso.