Repubblica Cult 9.10.16
I tabù del mondo
Se il fallimento insegna l’amore per l’Altro
In
un tempo che celebra il successo, dove l’imperativo è vincere, la
psicoanalisi contrappone al “principio di prestazione” l’elogio della
crisi. Le sconfitte sono un passaggio fondamentale in ogni processo di
formazione. Il punto dove la vita cede, soffre e sbanda può essere
occasione di trasformazione
L’esperienza del non riuscire è legata
anche all’eros: se ti desidero è perché c’è qualcosa di te (e di me)
che mi sfugge, che mi appare quasi irraggiungibile
di Massimo Recalcati
Il
nostro tempo è assoggettato al dominio del “principio di prestazione”.
Con questa categoria Herbert Marcuse in Eros e civiltà intendeva isolare
un tratto essenziale della nostra epoca: non è più il principio di
realtà — come indicato da Freud — che sottomette il principio di piacere
impedendo alla pulsione di soddisfarsi senza tenere conto del limite
costituito dalla realtà, ma un nuovo imperativo che impone alla vita
l’essere costantemente in gara. La scena della realtà può essere abitata
solo da quelli che soddisfano l’agonismo narcisistico della lotta per
la propria affermazione. Questa scena diviene, di conseguenza, il luogo
della esibizione permanente del proprio successo. Ne consegue che nel
nostro tempo l’esperienza del fallimento ha acquisito il valore di un
vero e proprio tabù. Accade tra genitori e figli come nel mondo del
lavoro: l’esperienza del fallimento è considerata una sciagura che deve
essere evitata a tutti i costi. In primo piano è l’individuo come monade
chiusa su se stessa che persegue ostinatamente la propria
autorealizzazione. La sua libertà è senza vincoli, esaltata, eccitata,
infatuata solo di se stessa.
A questa nuova idolatria della
prestazione efficiente corrisponde, solo in modo apparentemente
contraddittorio, la retorica del “dialogo” e dell’”empatia”. Mai come
nel nostro tempo l’uso di queste due parole appare inflazionato.
L’atomizzazione imposta dal principio di prestazione ha generato una
morale da crocerossina che vorrebbe esorcizzare lo scandalo di una
differenza che non può essere appianata. Bisogna dialogare coi propri
figli o coi propri amori, bisognare mostrare empatia con lo straniero e
il diverso. Lo stile poltical correct tende a cancellare il carattere
necessariamente fallimentare di ogni integrazione che vorrebbe
assimilare il diverso rendendolo uguale a noi.
La psicoanalisi
sovverte entrambi queste due nuovi miti dando valore proprio
all’esperienza del fallimento. Al mito “iocratico” del principio di
prestazione contrappone un vero e proprio elogio della crisi e della
sconfitta. Sin dalla sue origini freudiane la psicoanalisi riscatta
tutto ciò che accade ai margini della vita forte e sicura di se stessa:
sintomi, atti mancati, disorientamenti, sogni, incubi, lapsus, fantasie
bizzarre. Tutto ciò che la ragione filosofica tradizionale ha scartato
come insignificante diviene, agli occhi dello psicoanalista, prezioso
come oro. La psicoanalisi si occupa di vite che sono il rovescio di
quelle che sponsorizzano il mito del principio di prestazione: vite
lacerate che hanno fatto esperienza dello scacco, dell’impaludamento,
dello sbandamento; vite bloccate, smarrite, imprigionate. Insomma, cause
perse.È di queste che si occupa la psicoanalisi offrendo loro la
possibilità di ripartire, di ricominciare. E sostenendo un presupposto
etico antagonista al culto ipermoderno dell’auto- affermazione: solo
attraverso la crisi e il fallimento possiamo davvero fare esperienza
trasformativa della verità. La caduta da cavallo, l’impatto con un
ostacolo che non si lascia superare, l’incontro con il nostro limite che
l’esperienza del fallimento rivela è un passaggio fondamentale in ogni
processo di formazione. Per questa ragione il sintomo per la
psicoanalisi non è solo ciò che deve essere emendato. Non è un semplice
disfunzionamento della macchina del corpo o del pensiero che deve essere
guarito. Il punto dove la vita cede, soffre, sbanda, cade da cavallo
può sempre essere un grande occasione di trasformazione. Non si tratta
allora di estirpare il sintomo perseguendo un ideale normativo di
guarigione, ma di fare parlare il sintomo per accogliere la sua verità.
Il
secondo mito che paradossalmente accompagna quello del principio di
prestazione è quello del dialogo e dell’empatia. Chi l’ha detto che una
politica giusta di integrazione debba risolversi in un’assimilazione tra
l’uno e l’altro? Che l’empatia sia necessaria per fondare una buona
relazione? Che l’amore sia anzitutto dialogo? E se quelle del “dialogo” e
dell’”empatia” fossero delle parole d’ordine finalizzate proprio a
scongiurare l’alterità dell’Altro, la sua radicale e irriducibile
differenza, il suo essere straniero? E se la condizione di ogni amore
non fosse dialogo ma l’incontro con un segreto indecifrabile, con un
mistero che resiste ad ogni sforzo empatico?
Quando osservo un
figlio crescere non capisco, in realtà, nulla di lui; lo vedo andare per
il mondo con un senso di libertà che non può che essere sua propria,
inassimilabile e diversa dalla mia. Di questo dovrei essere felice. Lo
stesso accade per gli amori. Lacan affermava che il rapporto sessuale
tra i sessi è impossibile, è sempre fallito. Non posso mai sentire
quello che l’altro sente, confondermi, coincidere, essere lui. Ma è
proprio dall’esperienza di questo fallimento che diviene possibile
l’amore come amore per l’eteros. Si tratta di provare a condividere
proprio l’impossibilità di condividere il rapporto. Se ti amo non è
perché dialogo con te ma perché in te c’è qualcosa di te e di me che mi
sfugge, impossibile da raggiungere. Scopro, cioè, in te un segreto che
mi supera e si distanzia da ogni empatia possibile. Per questo Lacan
identificava l’amore alla donna, se la donna è — come è — il nome più
radicale del segreto impossibile da decifrare.