mercoledì 5 ottobre 2016

Repubblica 5.10.16
Cucchi
Giravolte e veleni se la voce dei luminari allontana la verità
Duecento pagineche ingarbugliano invece di chiarire
Firmate da un docente chiacchierato
di Carlo Bonini

ROMA. Le 205 pagine della perizia di ufficio firmata dal collegio di professori presieduto da Francesco Introna sono un italianissimo capolavoro di ipocrisia che lascia il caso Cucchi in un guado dove è possibile sostenere tutto e il suo contrario. Un guazzabuglio della logica, un monumento al «ma anche», che consente, legittimamente, di far dire ai difensori dei carabinieri indagati per il pestaggio di Stefano che l’inchiesta “bis” della Procura è pronta per essere sepolta da una pietra tombale. E, altrettanto legittimamente, a Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, legale della famiglia, che «finalmente sarà possibile celebrare un processo per omicidio».
Impossibile, si dirà. Eppure, prevedibile. Chiamato dopo sette anni a rispondere una volta per tutte alla Domanda del caso Cucchi — di cosa è morto? — perché dalla risposta dipende il futuro di un nuovo processo agli autori del pestaggio, il collegio peritale nasce infatti nel gennaio scorso sotto i peggiori auspici. Perché a presiederlo viene chiamato un luminare barese, Francesco Introna, massone in sonno e uomo di destra, legato da rapporti di stima e colleganza con almeno due dei professori e medici legali (Paolo Arbarello e Cristina Cattaneo) di cui dovrebbe giudicare il lavoro. Perché, nel tempo, uno quale perito del pm (Arbarello), l’altra quale consulente di ufficio della Corte di Assise nel processo di primo grado (Cattaneo) hanno categoricamente escluso che le lesioni subite alla schiena durante il pestaggio da Cucchi (due fratture vertebrali) abbiano qualcosa a che vedere con le cause del suo decesso. Concludendo in un caso (Arbarello) che Stefano è morto per un «arresto cardiocircolatorio provocato da un grave squilibrio metabolico ». Nell’altro (Cattaneo), di «fame e di sete», come un suicida. Di più. Il professor Introna è diviso da profonda inimicizia da Vittorio Fineschi, storico consulente della famiglia Cucchi che da sette anni predica nel deserto sostenendo che nella morte di Stefano hanno avuto un peso decisivo le sue fratture vertebrali e l’effetto che hanno prodotto sui riflessi vagali che governano il battito del cuore.
La posta in gioco per Introna e il suo collegio è dunque alta. Concludere che le fratture vertebrali non sono state né causa, né “con-causa” della morte di Cucchi significa condannare l’inchiesta bis sui carabinieri a un’imputazione modesta di lesioni e dunque a sicura prescrizione visto il tempo trascorso. Sostenere il contrario, significa aprire la strada a un’imputazione di omicidio preterintenzionale e umiliare il lavoro di Arbarello e della Cattaneo, dando ragione all’odiato Fineschi e violando il fairplay degli uomini di scienza, in cui la regola vuole che cane non morda cane.
Per uscire dalla tenaglia, Introna impiega dieci mesi. E, alla fine, sceglie la via del «ma anche». Tira fuori dal cilindro come «probabile causa di morte» il coniglio dell’epilessia, ma ammette che l’ipotesi, sebbene da lui privilegiata, non ha riscontri «oggettivi». Quindi, sdogana quella avanzata dall’odiato Fineschi. Ancorché da lui scartata — argomenta infatti — esiste una seconda ipotesi plausibile: che le fratture alla schiena di Stefano (per la prima volta in sette anni riconosciute come recenti e dunque frutto del pestaggio) abbiano indotto un riflesso del nervo vagale che ha provocato la spaventosa dilatazione della vescica e, a cascata, una gravissima brachicardia che ha prodotto l’arresto del cuore. E tuttavia, aggiunge, quelle fratture (e dunque il pestaggio) non possono essere considerate causa del decesso, perché sarebbe bastato che qualcuno avesse avuto cura di svuotarla quella vescica. Insomma, colpa non dei carabinieri, ma degli infermieri del Pertini, dove Stefano fu ricoverato, e per giunta ormai assolti con sentenza passata in giudicato.
Nel gergo degli addetti, una “perizia suicida”. Forse, e più semplicemente, solo l’ultima furbizia di una storia che continua a pretendere soltanto la verità.