Repubblica 4.10.16
Potere concentrato e potere diffuso
di Nadia Urbinati
L’OLIGARCHIA
è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono, salvo la
cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il
referendum » . Eugenio Scalfari, che scriveva queste parole
nell’editoriale di domenica scorsa, ci stimola con la sua lapidaria
catalogazione a chiederci se questa riproposizine di Robert Michels sia
utile a capire ( e soprattutto a gestire) la forma di governo nella
quale viviamo, il governo rappresentativo. Un governo che agli elitisti
antidemocratici del primo Novecento sembrava null’altro che un’astuta
riedizione dell’oligarchia appunto, con le masse illuse che bastasse
votare per vivere in democrazia. Parlare di democrazia rappresentativa
all’interno di questo universo concettuale, attivato proprio quando
l’odiata democrazia si presentava sulla scena europea, ha poco senso.
Meno ancora ne ha pensare di rubricare il governo rappresentativo come
democratico. Nello schema duale proposto da Scalfari — decidere
direttamente oppure essere governati da un’oligarchia — è difficile far
posto al governo rappresentativo. Difficile, anche, vedere lo
scivolamento del governo rappresentativo verso una concentrazione
oligarchica del potere.
Però la democrazia rappresentativa non è
un ossimoro. Ha un’identità e una tradizione sua specifica, con un
pantheon di studiosi ( certamente diversi tra loro) di tutto rispetto, a
partire da Montesquieu e Condorcet, dai Federalisti americani a J. S.
Mill, autori a Scalfari familiari. Circa vent’anni fa Bernard Manin ha
sistematizzato queste idee e proposto il governo dei moderni come un “
governo misto”, che tiene insieme forma oligarchica e forma democratica.
L’oligarchia non è democrazia. E quando ha un fondamento nel consenso
elettorale libero e ciclico può combinarsi con la democrazia ( per
questo, Madison rifiutava il termine oligarchia e parlava di “
aristocrazia natuale”, per distinguerla da quella cetuale che non
discende dalla selezione elettorale). L’elemento democratico non sta
solo nel voto ( eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende
corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di
opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e
cambiate. È il libero e plurale dibattito che dà alla selezione
elettorale ( di natura aristocratica, secondo gli antichi e i moderni)
un carattere democratico. Quindi la democrazia elettorale e discorsiva
limita l’oligarchia, non è oligarchia. Perché è importante tenere
insieme i pochi e i molti, o se si preferisce la distinzione di chi
compete ( poiché per competere occorre mostrare un’identità
distinguibile) con la dimensione dell’eguaglianza democratica? Tra le
tante ragioni che si potrebbero addurre, una soprattutto merita
attenzione: per impedire la solidificazione del potere dei selezionati;
ovvero per scongiurare la formazione di una classe separata,
oligarchica. La temporalità del potere ( la sua brevità di esercizio)
che l’elezione immette nel sistema e la subordinazione dell’eletto ( o
del candidato) all’opinione di ordinari cittadini: questo fa della
democrazia rappresentativa non un ossimoro e non una malcelata
oligarchia, ma un governo unico nel suo genere, che contesta
l’idenficazione della democrazia con il voto diretto. E fa comprende
perché nelle democrazie moderne la lotta, perenne, è sulle regole che
presiedono alla formazione del consenso, all’organizzazione elettorale, e
infine alla limitazione del tempo in cui il potere è esercitato. Nella
tensione mai risolta fra diffusione e concentrazione del potere (
democrazia e oligarchia) sta la dinamica della democrazia
rappresentativa.