sabato 29 ottobre 2016

Repubblica 29.10.16
Perché la promessa sull’Italicum non risolve il dilemma del premier
di Stefano Folli

GIUNTI a questo punto, quando mancano poco meno di quaranta giorni al referendum, l’accordo di principio nel Pd per cambiare l’Italicum, cioè il modello elettorale, può essere utile. Ma con un limite preciso: quello di essere, appunto, un’intesa generale. Come tale può servire per ottenere oggi anche il consenso di Gianni Cuperlo, che rappresenta la minoranza del partito nella commissione ad hoc e lavora per comporre le lacerazioni. Tuttavia nessuno può sapere con certezza cosa accadrà all’indomani del 4 dicembre. Solo allora si capirà quanto vale la carta su cui sono annotate le ipotesi di modifica. A cominciare dall’abolizione del ballottaggio che farebbe crollare, in effetti, uno dei capisaldi dell’attuale legge.
Fino a quella data ben poco di ciò che viene detto o sussurrato ha un carattere definitivo. Altro sarebbe se la vaga intesa fosse trasferita nero su bianco in una proposta di legge e depositata in Parlamento. In quel caso assumerebbe un carattere abbastanza vincolante, pur considerando che la riforma elettorale si vota nelle assemblee legislative e non in qualche ufficio di partito. E alle Camere sarebbe necessario tentare almeno di raccogliere una maggioranza allargata, prima di chiudersi nel fortilizio e magari ricorrere — come è già avvenuto — al voto di fiducia.
In ogni caso, siamo solo alle prime battute di un percorso lungo e accidentato, di cui è difficile immaginare oggi il punto di approdo. Renzi, è evidente, si tiene tutte le carte nella manica. Può tentare, dopo il referendum, un Italicum-bis, riaggiustato in base alla sentenza attesa dalla Corte Costituzionale, ma senza scardinarne la logica di fondo. Oppure può afferrare il bandolo offerto dal semi-accordo maturato nella commissione e procedere a una riforma più radicale di quella legge che fino a qualche mese fa il premier giudicava la più bella del mondo e che, nonostante tutto, è ancora nel suo cuore. Tutto dipende, è persino banale ricordarlo, dal risultato referendario. Una vittoria del No imporrebbe la totale revisione dell’impianto attuale e si dovrebbe provvedere, fra l’altro, anche a ricostruire uno schema elettorale intorno al Senato. I fautori del proporzionale trarrebbero un forte incoraggiamento dalla circostanza, ma in realtà niente impone la restaurazione del modello che accompagnò la Prima Repubblica fino agli anni della crisi.
Ovviamente però i correttivi di cui si mormora a mezza bocca nelle ultime ore riguardano le conseguenze di una vittoria del Sì. Gli sforzi di mantenere unito il Pd anche a costo di qualche compromesso, hanno un senso solo in questa cornice. Il che spiega il silenzio di Renzi. Oggi il premier-segretario parlerà alla manifestazione di Roma, molto impegnativa per il Pd, ma c’è da dubitare che si leghi le mani circa il futuro dell’Italicum. La sua linea è semplice: prima vincere, poi discutere. E la discussione sarà strettamente connessa al grado di forza con cui Renzi uscirà dalle urne. Una vittoria striminzita del Sì potrebbe obbligarlo a discutere nel merito la nuova legge con la minoranza interna (tutta o un segmento di essa): in quel caso, la bozza della commissione tornerebbe utile. Viceversa, man mano che la vittoria si rivelasse larga e convincente, la disponibilità del premier tenderebbe a scemare. E il Pd farebbe un significativo passo avanti verso il “partito renziano”.
In fondo, Renzi non ha per nulla deciso di abbandonare una legge elettorale che gli garantirebbe sulla carta il massimo del potere parlamentare. Il problema è che sullo sfondo si stagliano i Cinque Stelle. Sconfiggerli nelle urne non sarà per nulla agevole e il colmo per Renzi sarebbe vincere il referendum per poi soccombere nello scontro elettorale, consegnando l’Italia a Grillo. Tutto quello che avverrà all’indomani del 4 dicembre meriterà di essere letto con la mente rivolta alle prossime politiche. La morte e la resurrezione dell’Italicum vanno viste solo in tale prospettiva. Da un lato, Renzi ha la necessità di tenersi stretto il gruppo dei Centristi, intesi come Alfano, Casini ma anche Verdini, dal quale ha ricevuto notevole aiuto in questi mesi. Dall’altro, deve recuperare un pezzo della sinistra in origine anti-renziana, a cominciare da Giuliano Pisapia. È una duplice operazione che deve stare in perfetto equilibrio per riuscire. E che non contempla l’apertura alla maggior parte dei bersaniani. Cioè a quella minoranza del No che oggi non sarà in piazza.