Repubblica 26.10.16
Paolo Ielo.
“Il rischio dell’Italia: una classe dirigente selezionata dalla corruzione”
Il
magistrato di Mafia Capitale: i boss hanno capito che conviene di più
usare le tangenti per piegare le istituzioni ai propri interessi
Rispetto a Mani Pulite c’è una balcanizzazione delle centrali del
malaffare
di Gianluca Di Feo
ROMA. «Le
indagini migliori sono quelle che si concludono con sentenze che
trovano spazio nei repertori di giurisprudenza, non quelle che finiscono
sulle prime pagine dei giornali». Un quarto di secolo fa Paolo Ielo era
il più giovane pm del pool Mani Pulite.
Adesso è il procuratore
aggiunto di Roma, che al fianco di Giuseppe Pignatone coordina tutte le
inchieste sulla corruzione. Assieme ai colleghi porta avanti l’accusa
nel processo di Mafia Capitale, ma evita di entrare nel merito del
dibattimento e delle polemiche innescate di recente dalle richieste di
archiviazione per numerosi indagati.
«A volte ci contestano di non
fare questa o quella richiesta di processo. Ma chi muove le indagini
deve avere per primo la capacità di capire dove può arrivare con quello
che ha in mano. Inchieste che portino a processi azzardati sono un danno
per tutti: per le procure che le propongono, per gli imputati e per la
collettività perché c’è una perdita di credibilità della giustizia».
In
questi giorni, dopo un intervento di Giuliano Pisapia su “Repubblica”,
si è tornati a discutere della centralità del processo.
«Le
indagini di Mani Pulite sono tutte arrivate a sentenza, con un livello
altissimo di condanne a parte i casi di prescrizione. L’idea del
processo “all’azzeccagarbugli” che non finisce mai va abbandonata: è una
pena per chi è innocente ed è una sinecura immeritata per chi è
colpevole. Perché così troppi dibattimenti muoiono per la prescrizione».
Quanto è lontana la corruzione della Milano di Mani Pulite da quella romana dei nuovi mazzettari?
«Milano
all’epoca era un laboratorio avanzato in cui si sperimentava una serie
di forme corruttive. Finiva la prassi della quota degli appalti
riservata alle cooperative e queste cominciavano a sedersi al tavolo
delle tangenti, pagando come gli altri imprenditori. Un fenomeno che
comincia a metà degli anni ‘80 a Milano e poi è stato in qualche modo
esportato nel resto d’Italia. Certo, alcune indagini romane sono state
una sorta di “ritorno al futuro”: mi sono trovato davanti agli stessi
meccanismi che avevo vissuto negli anni di Tangentopoli. Di sicuro
quello che mettemmo in luce a Milano era un sistema organizzato, adesso
invece c’è una situazione più balcanizzata. E per altri versi si è
imposto il tema del rapporto tra istituzioni e forme di criminalità
organizzata».
Che nell’ultimo periodo pare una costante nazionale,
dalle vostre indagini romane a quelle sull’Expo… «A Milano nel 1992
coglievi molto da lontano la possibilità che ci fosse intersezione tra
fenomeni di corruzione e criminalità organizzata, la coglievi
soprattutto sui modi con cui il denaro circolava. Allora come oggi i
flussi illeciti, quelli che muovono il denaro della droga, del
riciclaggio, dell’evasione e delle tangenti girano allo stesso modo. Ma
adesso i boss si sono resi conto che conviene molto di più usare la
corruzione. Perché comporta meno rischi, crea minore allarme e tutto
sommato costa di meno».
E queste tangenti diventate pure mafiose finiscono per condizionare la politica?
«In
Mani Pulite il tema centrale era il finanziamento dei partiti, mentre
ora in prospettiva c’è un problema di selezione della classe dirigente.
La corruzione porta con sé il rischio concreto di selezionare la classe
dirigente pubblica in funzione della sua capacità di prendere mazzette e
distribuire in modo distorto le risorse; dall’altro seleziona i
soggetti imprenditoriali non in base alla capacità di lavorare bene ma
di quella di pagare tangenti. Inevitabilmente, in un arco di tempo breve
o lungo, avremo un Paese affidato a soggetti che non sanno produrre e
dirigenti pubblici che non sanno amministrare: una selezione al
ribasso».
Rispetto a Tangentopoli ora sono state introdotte regole
e strutture per prevenire la corruzione. Come funziona il rapporto tra
prevenzione e repressione?
«Da bambino capitava che qualcuno
chiedesse: vuoi bene di più al papà o alla mamma? E’ una falsa domanda:
prevenzione e repressione sono due momenti diversi con funzionalità
diverse, che si potenziano reciprocamente. L’Anac presieduta da Raffaele
Cantone sta facendo un ottimo lavoro. Ha messo a punto tecniche di
analisi degli appalti per evidenziare alcuni elementi, che non
necessariamente indicano la corruzione ma permettono di concentrare
l’attenzione sulle anomalie. Ad esempio se una stazione appaltante non
fa ricorso alla centrale di committenza, se ci sono troppi affidamenti
diretti e varianti: tutto può essere valutato grazie a una formula
elaborata dall’Anac, una sorta di algoritmo degli appalti sospetti».
Oggi le indagini sono più difficili rispetto al 1992?
«La
balcanizzazione delle centrali di corruzione le rende più complesse.
Siamo abbastanza bravi nella ricostruzione dei flussi finanziari. Ma se
il denaro parte dall’Italia, va in Svizzera, poi a Hong Kong e da lì
alle Cayman per poi rientrare, mi serve tempo per individuare tutte le
tappe. Mentre fai le indagini, però, senti l’orologio che batte
inesorabile e quando trovi i soldi e li sequestri, hai già consumato
buona parte del tempo disponibile prima della prescrizione. Le
intercettazioni telefoniche sono strumenti fondamentali ma l’idea che
l’indagine si possa fare solo con intercettazioni a strascico – fuori
dai casi di mafia - è sbagliata dal punto di vista investigativo,
illegittima dal punto di vista delle regole di diritto e sostanzialmente
inutile per chi le indagini le fa. E poi c’è il problema del ritorno al
contante».
Anche ai tempi di Mani Pulite circolavano tante valigette piene di banconote...
«Ricordo
che un imprenditore arrestato ci raccontò che usava sempre valigette
dello stesso modello. Quando consegnava le mazzette, nessuno le
restituiva. Una sola volta presero i soldi e riconsegnarono il
contenitore. Lui, stupito, chiese come mai. Gli risposero: “Abbiamo una
stanza piena di valigette, non sappiamo dove metterle…”. Ma nella
vecchia Tangentopoli i finanziamenti ai partiti avvenivano soprattutto
con bonifici tra conti svizzeri. Oggi invece c’è sempre un ultimo miglio
in cui il denaro finisce in una valigetta. E durante le perquisizioni
trovi funzionari che hanno la casa piena di mazzette cash: in un caso
600 mila euro, nascosti nella scrivania, nel comò, persino negli
armadi».