sabato 22 ottobre 2016

Repubblica 22.10.16
“Libertà di preghiera anche per noi” la sfida dell’Islam ai piedi del Colosseo
Organizzata dalla comunità bengalese, la manifestazione ha avuto un seguito molto ampio La scelta contestata dai rappresentanti della Grande Moschea e dalla Lega Nord
I musulmani di Roma contro la chiusura dei loro luoghi di culto: ma la questione non tocca solo la capitale
È l’intero Paese a dover ripensare il rapporto con questa religione
di Renzo Guolo

Musulmani in piazza sotto l’arco di Costantino. Protestano per la chiusura dei luoghi di culto nella capitale. Protagonista della mobilitazione l’associazione Dhuumcatu, che rappresenta la comunità del Bangladesh a Roma. Ma, ovviamente, la questione non riguarda solo i bengalesi. Problemi analoghi si registrano su tutto il territorio nazionale.
La realtà è che sebbene la nostra Costituzione tuteli la libertà religiosa, e quella di culto dal momento che non esiste religione senza pratica, avere a disposizione un luogo in cui pregare è un problema per i musulmani. Molti amministratori locali o fingono di non vedere o esibiscono atteggiamenti muscolari che esasperano il clima. Ciascuno si comporta come crede, a seconda dell’orientamento e del ciclo politico, trasformando un diritto indisponibile, la libertà religiosa, in mera concessione. A livello nazionale la cosa si complica per effetto della mancanza di un’intesa tra Stato e musulmani, strumento previsto per le altre confessioni, o di una legge sulla libertà religiosa che sappia rispondere alle complesse questioni poste dall’avvento delle società multiculturali.
Con l’ovvio risultato che, come recitava lo slogan della manifestazione davanti al Colosseo, «chiudere le moschee non ferma le preghiere». I musulmani, infatti, continuano a pregare. Lo fanno in sale da preghiera ricavate in scantinati o capannoni industriali. Una situazione indegna per un Paese civile e, ormai, religiosamente plurale: i musulmani in Italia sono circa un milione e 700mila. Nella sola Roma sono circa 130mila, dei quali il 10 per cento cittadini italiani.
Oltretutto questa politica, tanto poco pensata quanto spesso mirata a riprodurre lo schema della “religione del Nemico”, è del tutto controproducente rispetto alla necessità di integrare la comunità islamica presente nel nostro Paese nel tessuto civico e istituzionale e prevenire eventuali derive fondamentaliste. Certo, nemmeno la piena libertà di culto, e della sua organizzazione, come si è visto in altri Paesi europei, può impedire che singoli aderiscano all’ideologia islamista radicale ma, almeno, contiene il fenomeno. Non è casuale che tra le motivazioni che gli jihadisti europei invocano per giustificare la loro scelta vi sia anche quella della discriminazione, palese o latente, contro l’islam.
Naturalmente Stato o amministrazioni locali si trovano di fronte a un problema reale. Quello della polverizzazione della rappresentanza dell’associazionismo islamico, che in Italia vede in campo organizzazioni che si aggregano secondo appartenenze nazionali o transnazionali. E un mai sopito conflitto tra “Islam degli stati”, rappresentato da Paesi stranieri, e “Islam delle moschee”, transnazionale e diffuso nel territorio. Un conflitto emerso anche di fronte alla manifestazione romana, stigmatizzata dalla Lega Nord (che annuncia un’interrogazione parlamentare) ma anche dal portavoce della Grande moschea di Roma, simbolo dell’“islam degli stati”, come inopportuna nel luogo simbolo della cristianità e in un momento nel quale l’Isis titola la sua rivista rivolta agli occidentali “Rumyah”, Roma, e apre su Telegram un canale social in italiano. Per la Grande Moschea, la capitale ha già un luogo di culto, appunto quello alle pendici dei Parioli, ma proprio le diverse modalità di aggregazione dei musulmani fanno sì che ciascuna comunità o gruppo miri ad avere la propria moschea. E’ un pluralismo intrinseco al fatto che l’islam è una religiose senza centro, senza gerarchia: ragione per cui ciascun gruppo di fedeli può dare vita a un luogo di culto.
I musulmani che si trovano davanti a vincoli urbanistici e destinazioni d’uso che rendono fuori norma i luoghi di culto improvvisati, chiedono di praticare in condizioni di legalità. Quella che manca, ripetono, è la volontà politica di risolvere il problema. Una constatazione palese. Al di là della rappresentatività degli organizzatori della protesta romana, il tema vero è se l’islam ha un posto o meno in Italia; se è una componente religiosa e civica della società italiana, oppure no. La risposta a questa domanda è la chiave di tutto.
Perché se è “sì”, occorre costruire una politica religiosa nei confronti dell’islam italiano, che tocchi aspetti, anche delicati per gli stessi musulmani, come quelli derivanti dalla nazionalizzazione dell’islam.
Se è “no”, si deve sapere che le reazioni identitarie potrebbero diventare presto assai problematiche.