Repubblica 20.10.16
La solitudine della fede
Io, Sorrentino e la luce di Caravaggio
Domani
su Sky Atlantic i primi due episodi di “The young Pope”. Lo storico
della Chiesa Melloni, consulente del regista, qui racconta come e quando
è nato il progetto del film
di Alberto Melloni
ROMA
PER gustare The young Pope, il lungo film di Paolo Sorrentino
travestito da serie televisiva, bisognerebbe prima andare a vedere la
vocazione di Matteo di Caravaggio a san Luigi dei Francesi in Roma. Un
capolavoro che dispone i personaggi attorno alla luce che sembra quasi
crearli, e che, quando i faretti a gettone si spengono, riappare,
lentamente nella penombra, come in quell’inno mattutino delle monache di
Vitorchiano che diceva che «vestite di luce e silenzio le cose si
destan dal buio com’era al principio del mondo ».
E anche a un
lettore ingenuo e sprovveduto come me appare chiarissimo che tutto,
perfino il contrasto degli abbigliamenti dei personaggi, serve a dire
che il cuore dell’opera non è un Gesù perfettamente identificato coi
modelli dell’arte “sacra” e nemmeno gli astanti collocati in altro
presente, ma la luce, solo la luce. Lo suggerisco perché a me
quell’opera ha fatto da viatico in una serie d’incontri e scambi che mi
hanno permesso con qualche distanza e intermittenza di veder nascere The
young Pope, grazie alla fiducia di Paolo Sorrentino.
Un amico
molto caro ne è stato il discreto mallevadore fissandomi un
appuntamento, quasi due anni fa, insieme ad un suo non meglio precisato
accompagnatore. Luogo fissato, l’albergo Santa Chiara di Roma: sede di
nascita del Partito Popolare di Sturzo e luogo che, quando il ministero
della Pubblica istruzione era in piazza della Minerva, faceva dire a un
ironico Croce che forse era per il loro concentrarsi lì in cerca di
favori che ai professori universitari ci si rivolgeva chiamandoli
“chiarissimi”.
Ma avendo sbagliato i calcoli, come capita sempre a
Roma, mi avanzava il tempo per arrivare a san Luigi dei Francesi, per
rivedere Caravaggio. E così non ho fatto tardi all’appuntamento dove ho
scoperto che il terzo interlocutore della conversazione sarebbe stato
Paolo Sorrentino. Che aveva in testa un film, che oggi è The young Pope:
e di cui mi parlò, in un modo che mi venne subito da ricollegare al
capolavoro caravaggesco.
Era l’inizio del papato di Bergoglio e la
primitiva idea del suo film da dieci ore era stata spiazzata
dall’elezione di Francesco. Sorrentino aveva immaginato tempo prima,
regnante Benedetto XVI, che il “suo” papa dovesse essere un papa
all’antipodo della realtà. Il conclave lo costringeva così a riformulare
la sporgenza narrativa da cui iniziava il suo film, ripercorrendo fino
all’altro estremo rispetto a Francesco il pendolo conclavario. Per farlo
cercava due cose, su cui posare la sua intuizione creativa, che come la
luce in Caravaggio, aveva bisogno di esattezze e precisioni inutili in
sé. Gli servivano frammenti di storia e ortografie ecclesiastiche per
dipingere il suo papa, Lenny Belardo, su una tela lunga dieci ore e
passa: ma il punto di quell’opera non sarebbe stato né la storia né i
dettagli, che erano semplicemente i solventi in cui lavare i suoi
pennelli interiori.
Così negli scambi conviviali, nella lettura
delle sceneggiature dei cinque blocchi narrativi, nelle telefonate
appariva sempre più evidente perfino alla mia sprovveduta e ingenua
lettura del lavoro cinematografico che a Sorrentino non importava nulla
del Papa o del papato. Questo oggetto, anzi, serviva solo per tendere
sadicamente una trappola al primo pretino complessato o fragile, che ne
dirà peste e corna, trovando sgradevoli o “irrealistiche” certe scene:
perché al malcapitato tutto questo racconto chiederà di dire se il naso
di Dio di Rembrandt è realistico o se le bocca dell’Innocenzo X di Bacon
sono esatte. Essendo chiaro che né a Bacon né a Rembrandt interessa
questo; come non interessa a Sorrentino.
Per Sorrentino è evidente
che quello che vuole perimetrare è la “grande bruttezza” che popola il
paesaggio interiore di uomini e donne in cui il dolore ha scavato
cisterne d’indifferenza e bisogni d’amore che neppure la perversione del
potere o del sesso sa più colmare. La grande bruttezza della solitudine
ha un punto estremo e rivelatore nella orfananza — che è il destino di
chi ha genitori benedetti da Dio. E poi si rifrange a cascata nelle
solitudini, lette dentro le “sorrentinate” (che nel “papa giovane” non
mancano avendo a disposizione l’immaginario dei palazzi e dei giardini
vaticani).
A differenza di tanto cinema e di tanta letteratura che
esplora i legami solo per dirne una inconsistenza banale, Sorrentino
cerca da sempre di capire come sia “possibile” la solitudine
irredimibile perfino là dove c’è una “pienezza”: il pieno potere del
Divo (facile); il pieno estetismo di Jepp (meno facile); e ora la piena
religiosità di Lenny, il papa che si sottrae alla vi- sibilità e alla
fede, in un disegno disgustoso al quale piano piano personaggi e
spettatori si arrendono, fin quasi a tifare Lenny, prima di un finale
che promette molti sviluppi.
Come il Divo non era un film “su” Andreotti, ma “attraverso” Andreotti e dunque senza alcun obbligo ricostruttivo; o
La grande bellezza non era un film su Roma, ma su una Roma vuota; o Youth non parlava della vecchiaia, ma del corpo, così
The
young Pope non è un film sul papato. Anche se c’è sempre in scena il
Palazzo e la Corte, in un Vaticano scosso dalla scelta del nuovo
pontefice di rendersi invisibile, attraverso Jude Law sorprendentemente
credibile e un Silvio Orlando superbamente calato nella parte di un
Segretario di Stato che con la devozione post-maradoniana per il Napoli e
il santo cinismo dell’uomo di apparato, deve gestire la metamorfosi
autoritaria dell’uomo che ha fatto diventar papa.
Che sarebbe
stato così lo si percepiva già dalle sceneggiature: ma quando poi il
film è diventato tale la percezione è diventata esperienza. Che, per chi
scrive, s’è consolidata nel privilegio di vederlo tutto intero, in un
pomeriggio caldo e una notte romana, con un minimo di generi di conforto
a disposizione: dodici ore passate senza fatica, perché pur nella
costrizione del piccolo schermo, la forza del racconto catturava anche
chi sapeva come va a finire. Se farà lo stesso effetto agli spettatori
lo sapremo presto.
E sapremo anche come una coscienza cattolica
superficialmente papista come quella italiana e istintivamente
anti-papista come quella americana reagiranno a un film che per dire la
solitudine nella fede non esita a dipingere il buio meschino che la
circonda. La sfida e la trappola non sono da poco: e un punto di
dettaglio me lo ha confermato.
Quando ho rivisto l’intero film mi
ha colpito un dettaglio: la tonaca di Pio XIII, da un certo punto in
poi, non è quella bianca che siamo abituati a vedere: porta un vezzoso
ricamo dorato sui baveri, che non mi pareva di aver mai visto e che
costituisce una piccolissima sgrammaticatura iconica. Voluta? Forse
nemmeno Sorrentino saprebbe dirlo: poi sono tornato da Caravaggio a
rivedere quella piuma che decora il cappello e ho capito tutto.