lunedì 17 ottobre 2016

Repubblica 17.10.16
Le forze anti Isis puntano le armi sul baluardo del Califfo in Iraq Le incognite però restano: dal rebus delle divisioni interne alla presenza del rais
I turchi hanno imposto il loro ruolo, sfidando il rifiuto del governo di Bagdad di averli in casa
E adesso la sfida-chiave di Mosul ma il vero ostacolo resta Assad
di Bernardo Valli

IN DUE anni lo Stato islamico, o califfato, ha perduto più di un quinto del territorio che controlla in Siria e in Iraq. Estendeva il potere su circa novantamila chilometri quadrati all’inizio del 2015 ed oggi su meno di settantamila. Un’amputazione equivalente alla Lombardia. Contano i centri abitati, come quelli di Dabiq e di Soran.
SONO le città dai cui i jihadisti del Califfato sono stati cacciati nelle ultime ore. Sono località in prossimità del confine turco e a Nord di Aleppo; e Dabiq è considerata simbolicamente importante per una profezia islamica che immagina in quel posto le forze musulmane vincenti su quelle cristiane. In questo capitolo della storia reale si sono affrontati però soltanto gruppi islamici, sunniti da entrambe le parti. A cacciare i jihadisti del Califfato sono stati i ribelli siriani appoggiati dai turchi.
Da quando perde terreno nel Medio Oriente in cui si svolge il conflitto aperto, le varie intelligence occidentali si aspettano che lo Stato islamico intensifichi l’attività terroristica in Europa, per provare di non essere in declino. Qualcosa di simile a un trasferimento del campo di battaglia. Se la previsione ha un fondamento, ci si può attendere il peggio. La chiaroveggenza degli esperti nella materia non è una scienza, possiamo forse contare su un calcolo sbagliato vista la complessità della situazione.
Prima della fine dell’anno i jihadisti in ritirata dovrebbero sostenere l’assedio di Mosul, la loro capitale irachena, e seconda città per importanza, con due milioni e mezzo d’abitanti nel 2014, seconda soltanto a Bagdad. La perdita di Mosul, occupata da più di due anni significherebbe la più grave sconfitta dopo la proclamazione dello pseudo Califfato. Potrebbe allora cominciare l’agonia di quel gruppo che ha portato il terrorismo in Europa e che sempre nelle nostre contrade, secondo le intelligence occidentali, potrebbe tentare una rivincita, moltiplicando gli attentati. Una scuola di pensiero più ottimista ritiene al contrario che la delusione per la sconfitta abbasserebbe la combattività e la disponibilità delle virtuali reclute europee.
Il conflitto mediorientale non si limita alla lotta contro lo Stato islamico. Si tratta di una guerra incrociata. Mentre i ribelli siriani, appoggiati dai turchi, infliggevano una seria sconfitta ai jihadisti di Dabiq e di Soran, a Aleppo l’aviazione russa e quella siriana di Damasco bombardavano pure loro i jihadisti dello Stato islamico, ma senza risparmiare i ribelli siriani. Gli stessi che a non tanti chilometri di distanza avevano appena conquistato i capisaldi del Califfato, e che sono al tempo stesso i nemici di Bashar el Assad, il rais di Damasco, sostenuto dai russi.
Gli schieramenti non sono lineari. Il capo della Brigata Cinquantuno, Ibrahim Afassi, che fa parte dell’Esercito siriano libero, era fiero di avere sconfitto a Dabiq, insieme ai turchi, gli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi, il capo dello Stato islamico, ma doveva difendersi dagli attacchi dei governativi aiutati dai russi. Nemici e alleati cambiano secondo le situazioni. I nemici possono avere un nemico comune, ad esempio lo Stato islamico, ma restano nemici. L’Esercito siriano libero vince lo Stato islamico a Dabiq, ma Bashar el Assad lo bombarda come lo Stato islamico ad Aleppo. Secondo l’agenzia ufficiale turca Anadolu, i ribelli sostenuti da Ankara controllano negli ultimi mesi ormai più di mille chilometri quadrati che erano occupati dallo Stato islamico, ma hanno combattuto anche le milizie curde siriane, che costituiscono la fanteria più efficiente della coalizione guidata dagli americani.
Nelle ultime ore l’esercito iracheno ha lanciato migliaia di manifestini su Mosul per annunciare l’imminente attacco. E alla periferia della città occupata dallo Stato islamico sono stati accesi migliaia di copertoni per immergere l’abitato in un fumo denso e rendere difficili le incursioni aeree. A pochi chilometri, sempre nella provincia di Ninive, sono accampate le truppe che dovrebbero sferrare l’attacco. Ma tra loro non regna la collaborazione necessaria alla vigilia di un’impresa comune. I turchi ad esempio hanno imposto la loro presenza, sfidando il rifiuto di averli in casa del governo di Bagdad, ma con il consenso del Kurdistan autonomo iracheno, con il quale intrattengono buoni rapporti, al contrario di quel che accade con i curdi siriani e turchi. Alle porte di Mosul anche il dissidio etnico tra sciiti e sunniti divide gli attaccanti.
Le risse mediorientali non risparmiano le potenze geograficamente estranee alla regione. Americani e russi sostengono coalizioni diverse ma con partner che restano in bilico tra i due schieramenti zigzaganti.
Quel che rende opaca la situazione, e impossibile ogni intesa, è la presenza nel conflitto di Bashar el Assad. È contro di lui che l’insurrezione è cominciata cinque anni or sono. E i russi continuano a sostenerlo mentre gli americani lo tengono a distanza senza affrontarlo apertamente. Se lo facessero si scontrerebbero con i russi. E nessuno vuole un conflitto a quel livello. Quindi, dopo un mese di reciproca freddezza, per i bombardamenti indiscriminati su Aleppo, il segretario di Stato Kerry ha incontrato sabato il collega Lavrov, si sono stretti la mano, si sono parlati a lungo senza concludere nulla.