Repubblica 16.10.16
I tabù del mondo
Se la morte non è un abisso da vincere
Freud
non pensava al corrompersi delle cose come a un male da sconfiggere Per
lui è proprio la caducità a generare bellezza Il trascorrere del tempo,
il suo divenire inesorabile ci fa apprezzare i dettagli più
insignificanti e arricchisce il senso della nostra esistenza
La
meditazione filosofica come precisa Schopenhauer non sorge
platonicamente dallo spettacolo del mondo quanto piuttosto dal trauma e
dall’incontro con il dolore
di Massimo Recalcati
Davanti
a me il ricordo indelebile delle mani nodose di mio nonno paterno che
decretavano inesorabilmente, con gesti lenti e precisi, la morte di un
coniglio impaurito. Un colpo secco alla testa, poi le operazioni di
scuoiamento. È attraverso questa pratica antica della vita contadina che
ho fatto da bambino il mio primo incontro con la morte. Restavo basito
di fronte a quella mescolanza di violenza e tranquillità chiedendomi
come era possibile integrare il ritmo naturale della vita – uccidere
l’animale per nutrirsi – con la brutalità ordinaria che orientava i
gesti antichi del nonno. Non era, il suo, un desiderio sadico: stava
lavorando per prepararci la cena, non stava uccidendo con piacere la sua
vittima. Tuttavia, il ritmo naturale della vita contadina non poteva
assorbire del tutto lo sconcerto dell’incontro con la nuda morte. Quel
coniglio, scelto casualmente tra i suoi simili rinchiusi nella stessa
gabbia, mi faceva incontrare una dimensione di non-senso che già da
bambino intuivo non essere per nulla estranea alla vita. La morte
introduceva nella vita un tabù che mi appariva psichicamente
indigeribile. La morte del coniglio non mi spingeva a pregare, né a fare
alcun lavoro del lutto. Quella morte mi obbligava semplicemente a
pensare. La meditazione filosofica, come precisa Schopenhauer, non sorge
tanto, platonicamente, dallo spettacolo del mondo, dalla meraviglia di
fronte all’essere, quanto piuttosto dal trauma, dall’incontro spesante
nei confronti del male, del dolore e della morte. È la morte, come egli
scrive, il vero punctum pruriens della metafisica. Le pagine
heideggeriane di Essere e tempo, che scoprii con entusiasmo a vent’anni,
lasciarono in me una traccia indelebile: la morte non è l’ultima nota
che conclude, aggiungendosi dall’esterno, la melodia dell’esistenza;
essa è, piuttosto, radicalmente inclusa, un’imminenza sovrastante, una
impossibilità sempre presente, una pressione sempre in atto che non
lascia in pace.
Cosa da ragazzo avevo amato così profondamente in
Gesù se non l’offerta radicale di sé, l’esposizione del suo corpo
trafitto, se non il suo passaggio attraverso l’abisso della morte? Non
era la potenza dell’amore a salvarci dal nostro destino di conigli? La
vittoria sulla morte non avveniva attraverso l’ascesi epicurea, non
avveniva allontanandola semplicemente dalla vita (dove c’è vita non c’è
morte e dove c’è morte non c’è vita affermava Epicuro), ma accadeva
nella morte, nell’incontro con l’alterità assoluta della morte. Era
questa l’esperienza decisiva di Cristo: scendere negli abissi della
morte, scendervi come uomo, per vincere la morte, per risorgere dal suo
ventre scuro e ricongiungersi al padre. Si trattava dello stesso passo
che ritrovai più tardi in Heidegger? Liberare la vita dalla paura e
dall’orrore della morte, renderla risorta.
Come spesso accade, la
mia fede in Dio incontrò un primo scacco il giorno in cui, adolescente,
mi recai all’ospedale Niguarda di Milano per trovare un amico coetaneo
colpito da un tumore al cervello. Aveva già perso la vista e giaceva al
buio cantando in modo surreale una vecchia canzone d’alpini. Portava il
mio stesso nome e quando provai a chiamarlo e lui girò la testa bendata
verso di me senza rispondermi scoppiai a piangere. Perché Dio non aveva
ascoltato le mie preghiere? Dov’era mentre le metastasi distruggevano il
cervello del mio amico? Cosa c’è di più assurdo di questo? Cosa c’è di
più assurdo, scrive in apertura de Il Mito di Sisifo Camus, della morte
di un bambino, della fine di una giovane vita?
La lettura
dell’articolo di Freud titolato Caducità offrì una risposta nuova ai
miei interrogativi. Freud non pensava alla morte come un abisso da
vincere, ma come condizione della vita. È il trascorrere del tempo, il
suo divenire inesorabile a farci apprezzare i dettagli apparentemente
più insignificanti della vita. Il corrompersi delle cose, anziché
generare disperazione, introduce ad una esperienza della bellezza non
disgiunta da quella della caducità: «Nel corso della nostra esistenza,
vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma
questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un
fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare
meno splendida». Il senso tragico della vita non sopprime la vita, né il
suo senso, ma la arricchisce. Nel Freud di Caducità trovavo un “sì!”
alla vita che non implicava la resurrezione dei corpi, la loro salvezza
eterna, ma che si fondava, al rovescio, sulla loro estrema caducità.
Freud
era ben consapevole della paura degli uomini nei confronti della morte e
della loro attitudine a trovare rimedi, illusioni, “scacciapensieri”.
Per questa ragione una psicoanalista come Gennie Lemoine ha potuto
affermare che dalla vita non ci si deve attendere nulla; si tratta solo
di fare, di vivere; nella vita bisogna fare perché, in effetti, non c’è
altro da fare. L’assunzione della propria morte sfronda la realtà
dall’Ideale, ma non annulla la possibilità dell’amore. Anzi, l’amore –
ed è qui che ritrovo il motivo decisivo della testimonianza di Cristo –
può salvare dalla morte e dalla distruzione. Esso è come la bellezza
della rosa che sa essere eterna nel battito di un solo giorno.