Repubblica 15.10.16
La svolta del papa nero
L’elezione di padre Arturo Sosa alla guida dei gesuiti ha enorme importanza
di Alberto Melloni
ANCHE
SE s’è svolto un po’ al riparo dal clamore mediatico, il “conclave” che
ha eletto padre Arturo Sosa Abascál 30esimo preposito generale della
compagnia di Gesù — primo gesuita non europeo a ricoprire quella carica —
ha una enorme importanza.
L’elezione di padre Sosa, è avvenuta
dopo le dimissioni di padre Adolf Nicolás: che sembrava volesse marcare
la “normalità” della rinuncia. Le prime dimissioni della storia gesuita,
infatti, le aveva date padre Arrupe, assediato con la minaccia di una
scissione sotto Montini e poi umiliato da Wojtyla che nel 1980 le
rifiutò per commissariare l’ordine imponendogli una guida non eletta.
Nel 2008 s’era dimesso padre Kolvenbach, ovattando la sua scelta col
compimento degli 80 anni d’età. Annunciate da mesi quelle di Nicolás
potrebbero “normalizzare” la temporaneità del generalato (che era a vita
come lo era il papato e dal quale il papato potrebbe prendere spunto
per stabilire di fatto che il Papa può lasciare senza bisogno del
marasma vissuto sul finire dell’era Ratzinger).
Ma convocarsi per
eleggere il nuovo generale dei gesuiti aveva un significato sistemico.
Infatti quella elezione ha dato spesso una ecografia inattesa delle
tendenze profonde della chiesa: ha manifestato e spesso ha anticipato
tendenze future, anche molto divergenti rispetto all’asse del papa
regnante. Papa Francesco — che da buon gesuita — ha mantenuto la più
ignaziana indifferenza davanti a un momento che non è né una elezione di
mid-term, né l’oroscopo incerto d’un conclave futuro — sapeva dunque
che questa era l’occasione per ascoltare su scala globale la rete di
sensibilità, interessi e disinteressi, che rendono unica la compagnia di
Gesù.
L’elezione di padre Sosa dà una risposta. Scegliere un
gesuita latino-americano dice che non s’è creato nella chiesa l’effetto
che per esempio saturò di polacchi la Roma wojtyliana. Eleggere il
direttore del primo Cias (i centri di indagine e azione sociale fondati
sotto l’impulso di Arrupe in America Latina nel 1968), dice che la
coscienza teologica e politica della ingiustizia come bestemmia
dell’umano è ancora in agenda. Fare preposito un uomo che è stato
“visiting” alla Georgetown di Washington, dove il cattolicesimo
americano ha imparato ad essere democratico non per calcolo, ha perfino
qualcosa da dire alla campagna americana e agli equilibri che la sperata
Amministrazione Clinton dovrà segnare.
Sosa esce da una meccanica
elettorale propria della compagnia (che dice molto di Francesco). Le
differenze fra il conclave del papa bianco e del papa nero sono molte.
Alcune intrinseche: il capo dei gesuiti è un comandante globale
legittimato, da chi lo sceglie; il pontefice è invece il vescovo di Roma
che riceve dalla santità della chiesa di Pietro e Paolo a cui i
cardinali lo chiamano poteri sulla chiesa simmetrici a quelli dei
vescovi. Nel conclave pontificio i cardinali si parlano tutti insieme e
poi chiudono la porta per trattare e votare, fino ad un esito certissimo
e incontestabile; in quello gesuita un lungo lavoro assembleare sfocia
nei giorni della “murmuratio”, nei quali gli elettori possono e devono
parlarsi solo a due a due, per capire chi può essere il punto di
equilibrio. Quando il conclave finisce, il papa distanzia i suoi
elettori; mentre la congregazione generale dei gesuiti continua per
varie settimane (quella in corso finirà a novembre) per definire gli
equilibri di un governo, nel quale si prolungano i grandi principi del
papato di Bergoglio (che, come Arrupe, il generale della sua giovinezza,
vuol fare le riforme a norme invariate, vuole conquistare i nemici e
umiliare l’Avversario nel campo di battaglia che è la chiesa).
Padre
Sosa — la “murmuratio” deve essere servita a questo — non è stato
scelto perché noto al Segretario di Stato, Pietro Parolin che fu nunzio
in Venezuela; e tanto meno per la prossimità linguistica e culturale al
papa regnante. Se mai è vero il contrario: padre Sosa è dentro un soffio
che scuote la chiesa: e che non è il vento di una tempesta, la voce del
silenzio più impalpabile — quello che andò a cercare Elia sull’Oreb — e
che asseta l’orecchio dei profeti capaci di guardare alla violenza del
mondo come ad una sfida suprema.