Repubblica 13.10.16
Musei Reloaded
Metti un Canova vicino a un Pascali così si rivoluziona la storia dell’arte
Dalla
Galleria Nazionale al Pecci di Prato sulla scia di Tate e Beaubourg
antico e moderno insieme, fine della cronologia: didattica o spettacolo?
di Dario Pappalardo
Mentre
scaraventa in aria Lica, l’Ercole di Canova si specchia nel mare di
zinco di Pino Pascali, allestito sul pavimento. Alle spalle, come
scenografia, il marmo ottocentesco ha la “Spoglia d’oro su spine di
acacia” di Giuseppe Penone, 2002. Il pubblico, entrando nella sala,
lancia un oh di meraviglia. Alla Galleria Nazionale di Roma - non
chiamatela più Gnam - diretta da Cristiana Collu, da lunedì tutto è
cambiato. Time Is Out of Joint, indica il titolo del nuovo allestimento.
Il tempo è fuori asse, come recitano l’Amleto di Shakespeare e le
lettere sulla scalinata di ingresso a Valle Giulia. Perché la storia è
finita, le categorie sono diventate liquide, i canoni abbattuti. E i
musei si adeguano. Rimettono in scena le collezioni, spostano le opere,
rovesciano l’ordine cronologico della storia dell’arte. Tolgono polvere.
La Tate Modern di Londra ha presentato il nuovo volto lo scorso giugno;
il Centre Pompidou, alla vigilia dei quarant’anni, si sta
riformattando. In Italia il reloading ha riguardato, su scale diverse,
Ca’ Pesaro a Venezia, il Mart di Rovereto, il Madre di Napoli. Domenica
prossima a riaprire sarà il Centro Pecci di Prato. Ha la forma di
un’astronave lunghissima. Nelle sale della Galleria Nazionale di Roma le
rovine fotografate da Gabriele Basilico convivono con quelle dipinte da
de Chirico; le mucche di Segantini, 1886, sono sorelle gemelle di
quelle che si affacciano dal video Mattina di Luca Rento, 2010. La
collezione non è più un manuale che va dal primo capitolo all’ultimo:
dall’Ottocento al XXI secolo. Ma un gioco continuo di rimandi, oltre il
tempo e lo spazio. Perché, se nella Rete tempo lineare e spazio
geografico non esistono più, allora anche il concetto di arte
contemporanea rischia di restringersi. Si sancisce la fine dell’idea
rassicurante di museo che conosciamo? Addio didattica, benvenuto lo
spettacolo di opere, apparentemente lontane tra loro, messe insieme a
suonare una nuova musica? Il pubblico applaude. Ma va bene così?
«I
musei non possono aspettare », dice Cristiana Collu, che firma il
rinnovo della GN di Roma in collaborazione con Saretto Cincinelli:
budget complessivo impiegato 850mila euro. «Ognuno di noi deve
rispondere all’appello del proprio tempo. Oggi nessun allestimento può
durare più di dieci anni perché lo sguardo sul mondo cambia velocemente.
Nelle sale arrivano visitatori perennemente connessi. Tra un anno e
mezzo dovrò pormi un nuovo problema. Quando hai ventimila opere – in
questo momento ne sono esposte solo 500 – puoi permetterti di pensare
più racconti ». La storia dell’arte applicata alle sale del museo resta
un racconto del passato, però. «Discuto la sovrapposizione tra museo e
storia dell’arte – precisa Collu – Quando si esce fuori dalla filologia,
l’opera torna a vivere di per sé proprio come era nata. Il museo non è
un libro: lo spazio fisico pone altri problemi. Un museo deve poter
cambiare la storia dell’arte. Ho immaginato la Galleria Nazionale come
un cinema al contrario: con le opere fisse e gli spettatori che possono
avere più aria per girarci attorno». Nella nuova idea di museo, Medardo
Rosso può convivere a due passi di distanza con il quarantenne
Alessandro Piangiamore. Saltano i “sacri” recinti: «Ma un museo non
consacra più – puntualizza Collu – Non cambia la vita di un artista.
Prima, entrare in una collezione significava arrivare alla “fine”, era
come ottenere “il posto fisso”. Adesso corrisponde a una responsabilità
in più per un artista. E poi le mostre, e gli allestimenti, si fanno con
le opere, non con i nomi».
«C’è bisogno di rinnovare il modo di
presentare l’arte», rilancia Fabio Cavallucci. Il suo Centro Pecci per
l’arte contemporanea, riprogettato da Maurice Nio, riapre domenica a
Prato su una nuova superficie che supera i 12mila metri quadrati: oltre
14 milioni di euro l’investimento. «I social network – spiega – hanno
rotto il principio di autorialità dell’artista: ognuno crea il
palcoscenico di se stesso. I musei devono rispondere a questo,
sperimentando. La visione mercantile e il sistema collezionistico hanno
ridotto l’arte a interesse di pochi. Bisogna cercare di riavvicinarsi
alla società. I musei devono toccare temi più ampi, produrre sensazioni,
anche spettacolari, per chi li attraversa. Perché l’arte oggi è
esperienza, più che una serie di oggetti. Il lavoro fatto da Hans-Ulrich
Obrist, Phillippe Parreno e Pierre Huyghe con le loro mostre può essere
un esempio. Al Pecci contamineremo le arti: Fellini, Bjork, Delbono
dialogheranno con le opere. Sposteremo l’apertura fino alla tarda
serata».
Ma cosa rimane della vecchia idea di museo? «Resta il
compito di dimostrare che l’arte sia un valore pubblico», risponde
Gianfranco Maraniello, alla guida del Mart di Rovereto e presidente
dell’Associazione musei d’arte contemporanea. Il suo, appena
riallestito, sarà “ritoccato” ancora a marzo. «Ma è necessario che
continui a restituire punti fermi. Al museo non si va solo per fare
nuove esperienze, ma anche per verificare un’immagine che ancora non
abbiamo visto dal vivo. C’è un rito. Il valore didattico – penso alle
scolaresche – non va trascurato. È anche la casa del pubblico che
incontra l’arte, non solo degli artisti. Al Mart valorizziamo la
collezione che abbiamo: il Novecento delle avanguardie, eccentrico
rispetto al suo tempo. Non vogliamo essere una Tate di terza categoria».
Che
la musica nelle stanze dei musei stia cambiando è chiaro anche al di là
dell’oceano. Spiega Massimiliano Gioni, direttore del New Museum di New
York: «Credo che i musei si trovino di fronte a una sfida fondamentale:
sono istituzioni fondate su una certa idea di eccellenza, di gerarchia,
di cronologia basata su valori ottocenteschi o del primo Novecento, che
si sovrappongono anche alla storia del colonialismo, dell’etnocentrismo
europeo e anglosassone, per cui con eccellenza spesso si intende quella
di una certa minoranza o classe. Oggi bisogna fare i conti con una
visione assai più complessa che possiamo riassumere all’insegna di un
sano relativismo. Quindi la sfida del XXI secolo è come combinare
eccellenza e relativismo, come poter ancora parlare di capolavori – e
quindi di gerarchie condivise – in un momento in cui le gerarchie sono
rimesse in discussione ». I musei si stanno riprendendo il loro tempo.