il manifesto 13.10.16
Le tre voci di Neruda
Esce nelle
sale il film di Pablo Larraìn sulla figura del poeta cileno, senatore
comunista e ricercato politico, presentato a Cannes
Nella rilettura del regista, una biografia visionaria fuori dai canoni
di Eugenio Renzi
Una
biografia di Pablo Neruda, poeta cileno, senatore comunista, ricercato
politico, non può che contenere tre generi, e il film che la mette in
scena non può essere che tre volte «po» : poetico, politico, poliziesco.
Ma queste tre dimensioni possono accordarsi tra di loro? Si aiutano a
vicenda o si mettono piuttosto i bastoni tra le ruote? A giudicare
dall’ultimo film di Pablo Larrain… entrambe le cose. Andiamo per ordine.
Nella prima parte, il film mette in scena il poeta. Siamo negli anni
1950. Il Cile, scosso da un’aspra lotta di classe, è in rapida via di
fascistizzazione. Le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra
sono messe al bando, i militanti vengono arrestati e internati in campi
di concentramento. Ma, nella splendida casa di Neruda, le leggi del
materialismo storico sembrano sospese. Ogni sera, il poeta invita
l’élite cilena al suo simposio, e, tra un travestimento e un canto, fa
rivivere il meglio degli anni ruggenti del cinema americano e della
scena artistica parigina. Ora, questo Lazzaro dai gusti sofisticati e
cosmopoliti è anche un senatore comunista. Senatore di un partito che è
ancora inquadrato da solidi principi staliniani, implicato in una
battaglia nella quale due superlativi si affrontano: un proletariato
poverissimo, un’alta borghesia ferocissima.
Tra questi due mondi
non c’è nulla. Ed è chiaro che Pablito, figlio di ferroviere, diventato
Neruda, poeta di fama mondiale, sposato ad un’artista che ne ha
completato l’educazione, raffinandone i gusti, è più a suo agio con la
borghesia che con il proletariato. Perché il poeta ha scelto
quest’ultimo ? In che modo la sua ricerca del bello ha incontrato il
problema del buono ? E, soprattutto, come può il cinema appropriarsi di
queste domande, mettersi al loro livello e non limitarsi a servirle già
cotte, come accade sovente (segnatamente nel cinema andino). Invece di
provare a sbrogliare la matassa del bello e del giusto, Larrain sceglie
di aggiungere un terzo ingrediente all’intreccio: l’inchiesta
giudiziaria, ovvero il gustoso, il puro svago.
Ecco che il film si
inventa un personaggio, quello di un giovane ispettore, che il
Presidente cileno mette alle calcagna del poeta. Anche qui, si tratta di
essere fedeli alla biografia: a don Pablo, oltre all’alta poesia e alla
militanza politica, garbavano i gialli. Ma non si tratta solo di un
aneddoto. Con il gustoso o lo svago, Larrain cerca di interpretare la
scelta di vita del poeta e del politico. Abbastanza presto, ci si rende
conto che l’ispettore è una sorta di alter ego di Neruda. Anch’egli è
figlio di proletari (la madre era una prostituta). Anch’egli si è fatto
strada nel mondo e nel cammino si è inventato una maschera. Non è più un
bastardo, non è più un figlio di nessuno. È il figlio di un eroe.
Ma,contrariamente
al poeta, il poliziotto ha scelto di mettersi dalla parte padroni.
L’uno avrebbe potuto fare la scelta dell’altro. Neruda e il suo
ispettore sono in effetti due vite diverse di una stessa persona. Neruda
appare per questo non tanto un biopic quanto un intruglio di elementi
diversi, di immagini irrequiete. Nella fase finale, il film si spossessa
della logica e arriva a sposare una forma apertamente irrazionale. Che
cosa tiene insieme il tutto ? Tanto per cominciare, non è certo che il
tutto, vale a dire il film, tenga. Neruda ha il merito di far apparire
una questione complessa, in cui l’arte è chiamata doppiamente in causa
nel suo rapporto con la politica : può la poesia incontrare il
linguaggio della politica ? Può il cinema mettere in scena questi due
linguaggi con quello che gli è proprio ? Non è detto che Larrain abbia
trovato la forma giusta. Forse, meno che nei tre film precedenti: Tony
Manero, che lo aveva fatto scoprire, otto anni fa; seguito da Post
Mortem e Il Club, Neruda è meno leggero del primo. Meno grave del
secondo. Meno preciso del terzo. Però, c’è un’idea (non è poco).
Il
film la insegue, cerca di esporla, la trova in alcuni punti e poi la
abbandona per strada: la voce del poeta. È nella voce del poeta, che non
è una voce naturale, che i tre linguaggi potrebbero trovare una forma.
La stessa voce che seduce le masse, inquieta i padroni, crea il proprio
altro che indaga sul sé. L’idea è bella. Ma appena sussurrata. Forse è
giusto così.