La Stampa TuttoLibri 1.10.16
Pound, non finisce mai il naufragio dell’Occidente
Dalla critica all’usura delle banche e alla “denarolatria” alle riflessioni su Confucio, al necrologio per Eliot
di Giorgio Agamben
Non
si comprende l’opera di Pound se non la si colloca innanzitutto nel suo
contesto proprio. Questo contesto coincide con una frattura senza
precedenti nella tradizione dell’occidente, una frattura da cui
l’occidente non soltanto non è ancora uscito, ma nemmeno potrà farlo se
non sarà prima in grado di misurarne la portata in ogni senso decisiva.
Dopo la fine della prima guerra mondiale era, infatti, chiaro per chi
avesse mantenuto la lucidità, che qualcosa di irreparabile si era
prodotto in Europa e che il nesso tra passato e presente si era
spezzato. Che i primi a rendersene conto siano stati i poeti e gli
artisti non deve stupire, poiché è ad essi che incombe in ogni tempo la
trasmissione di ciò che vi è di più prezioso: la lingua e i sensi. Non
si può nemmeno porre il problema delle avanguardie poetiche del
Novecento se non s’intende preliminarmente che esse sono il tentativo di
rispondere – con maggiore o minore consapevolezza secondo i casi – a
questa catastrofe: esse non hanno a che fare con la poesia e con le
arti, ma con la loro radicale impossibilità, col venir meno delle
condizioni che le rendevano possibili.
La trasposizione in termini
estetico-mercantili della crisi epocale che si era espressa nelle
avanguardie è, per questo, una delle pagine più vergognose della storia
dell’occidente, di cui i musei di arte contemporanea rappresentano oggi
l’estrema e più ignava propaggine. Ciò in cui ne andava della stessa
possibilità della sopravvivenza dell’uomo in quanto essere spirituale
viene ridotto a un fenomeno di moda e liquidato una volta per tutte in
forma di produzione di nuove merci […]. Soltanto in questo contesto
l’opera di Pound – almeno a partire dai primi Cantos – diventa
intellegibile. Egli è il poeta che si è posto con più rigore e quasi con
«assoluta sfacciataggine» di fronte alla catastrofe della cultura
occidentale. Ben più decisamente di Eliot, egli dimora in questa «terra
devastata» – un inferno che, come egli suggerisce nel canto XLVII non si
può credere, come ha fatto il «reverendo Eliot», di «attraversare in
fretta». Ma proprio per questo, per lui «tutte le età sono
contemporanee» ed egli può riferirsi immediatamente all’intera storia
della cultura, da Omero a Cavalcanti, da Mani a Mussolini, da Dante a
Browning, da Persefone a Woodrow Wilson, da Confucio a Arnaut Daniel.
«Soltanto Pound» ha detto Eliot «è capace di vederli come esseri
viventi» – a condizione di precisare che, nei Cantos, essi sono in
verità soltanto frantumi, che sbucano per un attimo dal Lethe e
incessantemente si rituffano in esso […].
Se la tradizione è
accessibile solo come scheggia e frammento, il poeta a caccia di forme
non vede davanti a sé che macerie – anche se queste sono, almeno per
lui, vive e vitali proprio in quanto frammenti. Il suo canto inaudito è
intessuto di questi lacerti, che, una volta esaurita la loro funzione,
non sopravvivono a esso. Di qui l’impressione di artificiosità, così
spesso ingiustamente rimproverata alla sua poesia: Pound procede come un
filologo che, nella crisi irrevocabile della tradizione, prova a
trasmettere senza note a piè di pagina la stessa impossibilità della
trasmissione. Nella frase del Canto 76, in cui egli evoca se stesso come
scriptor di fronte al naufragio dell’Europa, il termine sarà ovviamente
da intendere «scriba», non scrittore. Di fronte alla distruzione della
tradizione, egli trasforma la distruzione in un metodo poetico e, in una
sorta di acrobatica «distruzione della distruzione» mima ancora, come
copista, un atto di trasmissione. In che misura questo atto riesca, in
che misura, cioè, il testo illeggibile, in cui un ideogramma cinese sta
accanto a una parola greca e un vocabolo provenzale risponde a un
emistichio latino, possa essere veramente letto è una questione a cui
non è possibile rispondere sbrigativamente.
La verità e la
grandezza di Pound coincidono – cioè si pongono e cadono – con la
risposta a queste domande [...]. Di qui l’importanza di quegli scritti
in prosa – come quelli di cui questo volume fornisce un’ampia
testimonianza – in cui Pound espone le sue idee sulla poesia,
sull’economia e la politica. Questi scritti sono a tal punto parte
integrante della sua produzione poetica, che si è potuto a ragione
affermare che «i Cantos sono ovviamente l’esposizione di una teoria
economica che cerca nella storia una esemplificazione».
Come un
poeta arcaico, Pound si sente responsabile dell’intero paideuma (come
egli ama dire, usando un termine di Frobenius) dell’occidente in tutti i
suoi aspetti. «Usura», «denarolatria» e, alla fine, «avarizia» sono i
nomi che egli dà al sistema mentale – simmetricamente opposto allo
«stato mentale eterno» che, secondo il primo assioma di Religio,
definisce la divinità – che ne ha determinato il collasso e che domina
ancora oggi – ben più che ai suoi tempi – i governi delle democrazie
occidentali, dediti concordemente, anche se con maggiore o minore
ferocia, all’«assassinio tramite capitale».
Non è qui il luogo per
valutare in che misura, malgrado le sue illusioni sui «popoli latini» e
sul fascismo, le teorie economiche di Pound siano ancora attuali. Il
problema non è se la geniale moneta di Silvio Gesell, che tanto lo
affascinava e sulla quale, per impedirne la tesaurizzazione, si deve
applicare ogni mese una marca da bollo dell’un per cento del suo valore,
sia o meno realizzabile: decisivo è, piuttosto, che, nelle intenzioni
del poeta, essa denuncia quella «possibilità di strozzare il popolo
attraverso la moneta» che egli vedeva non senza ragione alla base del
sistema bancario moderno. Che il poeta che aveva percepito con più
acutezza la crisi della cultura moderna abbia dedicato un numero
impressionante di opuscoli ai problemi dell’economia è, in questo senso,
perfettamente coerente. «Gli artisti sono le antenne della razza. Gli
effetti del male sociale si manifestano innanzitutto nelle arti. La
maggior parte dei mali sociali sono alla loro radice economici».