martedì 4 ottobre 2016

La Stampa 4.10.16
La Colombia inchiodata al suo passato
di Mimmo Candito

Ma dopo 52 anni di guerra, come si fa a dire No alla pace? Come si fa, dopo 266 mila morti, 45 mila desaparecidos, 7 milioni di profughi?
Come si fa con un reddito nazionale dimezzato e un reddito individuale perduto per un terzo? Eppure, la Colombia lo ha fatto domenica, votando a maggioranza il No nel referendum popolare che chiedeva l’approvazione di un accordo di pacificazione tra lo Stato di Bogotà e i guerriglieri delle Farc, Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia.
Erano anni, decenni, che – se si esclude la retorica bolivariana di Caracas, ormai anch’essa asfittica – in America Latina «revolucionario» s’era fatta una parola senza più eco; i processi politici della democrazia si erano rinsaldati, più o meno, dalle sponde del Rio Bravo fino alle terre fredde di Ushuaia, e c’era rimasto solo Fidel ad agitare in aria il pugno chiuso come un qualsiasi giapponese della Storia (mentre, più saggiamente, il fratellino Raúl traversava il fiume del dialogo e stringeva le mani dell’imperialismo yanqui).
Ma le Farc no, loro continuavano la loro guerra «rivoluzionaria», sepolti dentro l’intrico verde della giungla di San Vicente, e poco contava che la loro «rivoluzione» contadina dovesse foraggiarsi con il traffico della droga, con i sequestri, il riscatto degli ostaggi, la violenza spregiudicata, che sono crimini che poco hanno a che fare con l’alba radiosa di qualsiasi rivoluzione, che tale sia. Cinquantadue anni sono lunghi almeno quanto due o tre generazioni, e pur nel passar del tempo la Colombia comunque continuava a tenere sempre dentro la sua geografia antica e gloriosa questa mappa dell’ultima guerra della storia rivoluzionaria sudamericana, una storia cominciata con Bolívar (se non con Montezuma e gli indios ammazzati dai Conquistadores) e proseguita poi con eroi di varia taglia, fino al Che, che ormai è solo una «photo opportunity» sulla grande spianata della Plaza de la Revolución.
Come si fa, allora? C’entra di tutto, in questo sconcertante voto di domenica: la lotta politica tra governo e opposizione; il populismo; il legittimo desiderio di giustizia contro l’impunità; il timore di un percorso già tentato e già fallito; i vincoli clandestini e potentissimi dei cartelli della droga; la forza persuasiva delle bande di narcotrafficanti. Ha vinto il No per neanche 60 mila voti su 17 milioni di elettori, e ha vinto con una partecipazione che mai era stata tanto bassa, appena il 37,44, un colombiano su tre. Però il valore simbolico di questa decisione ora pesa dannatamente sulla storia della pacificazione; le delegazioni del governo e dei guerriglieri sono ripartite subito per l’Avana (dove di pace si discuteva dal 2012) e hanno assicurato che, però, non cambia nulla, che si continuerà a provare e a riprovare. E il leggendario, si dice così, comandante supremo delle Farc, Timoleón «Timoschenko» Jiménez, ha rassicurato che ormai la sola arma che i suoi guerriglieri useranno «sarà la parola».
Ma non è vero, non è vero che tutto continuerà come prima. L’ex presidente Alvaro Uribe, che guidava il No, ha avuto finora buon gioco ad agitare il rischio dei guerriglieri che s’impossessano del potere infiltrandosi nel sistema e la giustizia tradita da una sorta di amnistia informale. Il nuovo negoziato deve cominciare da lì, e lo strumento del referendum popolare ha mostrato ancora una volta che nel tempo della comunicazione elettronica, il «like» vale assai più di un voto.