La Stampa 29.10.16
Viaggio nel cuore islamico di Roma
“Un affronto chiudere le moschee”
A Tor Pignattara tra i garage adattati a luoghi di culto “Non si può togliere a un musulmano il diritto di pregare”
di Grazia Longo
Il
profumo di kurkuma, curry e coriandolo sovrasta quello della Margherita
appena sfornata dalle piccole pizzerie al taglio. Donne con lo hijab e
le buste della spesa camminano accanto a ragazze in jeans a vita bassa
che svelano colorati tatuaggi. Uomini che abbassano la saracinesca di
macellerie e frutterie, e poi si tolgono le scarpe prima di entrare a
pregare in moschea.
Camminando per le strade di Tor Pignattara,
periferia est di Roma, è evidente che la definizione di «quartiere più
multietnico della capitale» è riduttivo. Quella che un tempo era nota
per essere «la borgata degli sfrattati» è oggi il cuore islamico della
capitale, con il 40 per cento di immigrati. Su 15 mila residenti, 6 mila
sono extracomunitari, originari prevalentemente del Bangladesh e del
Pakistan. Seguono srilankesi e cinesi, ma la cifra di quest’angolo di
Roma è decisamente musulmana. Cinque le moschee ufficiali. Numero che,
tuttavia, triplica se si considera la decina di garage adattati a luogo
di culto. La maggior parte lavora nel quartiere e abita principalmente
in via Marranella - un tempo tristemente famosa per le bande criminali
alleate a quella della Magliana - via Casilina e via di Tor Pignattara.
Sono arrivati qui grazie al passaparola tra parenti o amici stretti. E
vivono compatti, vicini gli uni agli altri.
«Ma non definitici
ghetto o banlieu, siamo in tanti e abbiamo le nostre abitudini ma
rispettiamo quelle degli italiani», sbotta Nure Allam Siddique, più
conosciuto come Batchu, bengalese di Dakka, 52 anni, oltre la metà
vissuti in Italia, presidente dell’associazione Dhuumcatu. Un centro che
si occupa di tutto, dalle pratiche sindacali dei lavoratori alla
ricerca di un posto in ospedale per chi ne ha bisogno.
Ma la
concezione di «rispetto» di Batchu è a dir poco singolare. A sentire lui
infatti «la chiusura delle cinque moschee per ragioni igienico
sanitarie o di abusivismo edilizio è stata una mossa esagerata da parte
della polizia municipale. Per due ragioni. Primo, perché Roma è piena di
case con abusi edilizi e nessuno le tocca, stanno ancora tutte in
piedi. Secondo, perché non si può togliere il diritto a un musulmano di
andare in moschea. Per questo io, venerdì scorso sono andato a pregare
per protesta davanti al Colosseo».
Carisma ed eloquio accattivante
non mancano di certo a Batchu che parla circondato da altri bengalesi
incantati dalle sue affermazioni. E fanno cenni di assenso con il capo
anche mentre lo sentono affermare che «il terrorismo islamico non
esiste. I terroristi sono manovrati dall’occidente che ha interessi
economici da difendere. Anche l’Isis è finanziata da ebrei e americani.
L’Islam predica la pace, non la guerra». Poi mi stringe la mano e mi
congeda.
Non mi sfiora neanche invece - «la mia religione mi
consente di toccare la mano solo a mia moglie e a mia madre» - Sheikh
Hossain, 40 anni, da 12 a Roma. Ma la sua posizione è chiaramente più
moderata rispetto a quella di Batchu. «Per essere accettati nel vostro
Paese dobbiamo accettare la vostra legge, e quindi se una moschea non è
in regola è giusto che venga chiusa. Si può pregare anche in casa, anche
se alla moschea è meglio. A certe usanze della mia terra però non
rinuncio. Come vede ho la barba lunga e non mi vesto all’occidentale.
Per questo motivo sono stato licenziato da un ristorante vicino piazza
Navona. Dicevano che spaventavo i clienti perché sembravo uno dell’Isis.
Ma io sono molto onesto, la barba non me la sono tagliata e ora lavoro
in un piccolo ristorante qui a Tor Pignattara».
Vive e veste
all’occidentale, come i coetanei italiani, Miazi Shahadat, bengalese, 26
anni, da 12 nel nostro Paese, commesso in un negozio di telefonia. «Per
un po’ sono stato a Bologna e ad Arezzo ma c’era poco lavoro e quindi
mi sono trasferito a Roma dove stanno i miei parenti. Mi trovo bene,
anche se penso che le cose potrebbero migliorare. Le moschee ad esempio:
è giusto chiuderle se non sono in regola, se no bisogna tenerle aperte
perché per noi sono importanti. I terroristi islamici, invece, quelli
vanno fermati e puniti come qualsiasi altro terrorista». Parla in modo
pacato e gentile Miazi, e quando mi saluta si rimette le cuffiette per
sentire una canzone dei Red Hot Chili Peppers.