mercoledì 26 ottobre 2016

La Stampa 26.10.16
“Matteo costretto a salvare la ditta. Con quei soldi paghiamo i dipendenti Pd”
I renziani temono il boomerang sul referendum, rilancio sulle diarie
di Carlo Bertini

La «confessione» avviene in un angolo di Montecitorio e la deputata di prima fascia e di renziana fede la pronuncia abbassando la voce. «Il motivo per cui Matteo non ci ha fatto votare questo taglio delle indennità, secondo me, è solo uno: per salvare la “ditta”, perché altrimenti potrebbe saltare il banco al Nazareno, che si regge anche grazie ai prelievi sulle nostre buste paga. Ha le mani legate». E quanti sono questi versamenti «spontanei» dei deputati più devoti alla causa, che consentono al Pd di andare avanti anche dopo il taglio del finanziamento pubblico? Circa duemila euro al mese, in alcuni casi anche di più, versati al partito in forme diverse, tra gruppi parlamentari e federazioni: alla fine dell’anno consentono di raggranellare, calcolatrice alla mano, quasi otto milioni di euro, indispensabili per far andare avanti la baracca e per tutelare gli stipendi dei «compagni» lavoratori. Che poi tra questi cento e passa vi siano pure quelli che pompano i comitati del No al referendum, non fa che aumentare la rabbia dei renziani. Ma tant’è. Il partito va tutelato.
Se fosse passato il dimezzamento delle indennità, dalle tasche dei deputati sarebbero infatti usciti duemilacinquecento euro al mese. E sarebbe arduo caricare ai quattrocento deputati e senatori due decurtazioni, quella per il partito e quella per “sfamare” i sentimenti anti-Casta. Il problema comunque si riproporrà: se il Pd, come dice il premier, è pronto a votare una norma per tagliare i rimborsi spese in base alle presenze in aula, lo stesso ci sarebbe una ricaduta per le casse del partito: non semivuote, visto che al Nazareno è arrivato mezzo milione di euro dal due per mille.
Ma il fumo nero esce dal naso dei renziani che sanno di dover parare il colpo d’immagine, nelle prossime settimane, giocando solo in difesa. «Dovevamo fare subito una nostra proposta di legge per dimezzare la diaria come aveva chiesto Matteo», sibila David Ermini, fiorentino molto vicino al premier. «Così li mettevamo all’angolo, perché sulle presenze loro sono in affanno, alle sette di sera quando va garantito il numero legale spesso se ne vanno e in aula non c’è nessuno, senza parlare poi di Forza Italia...». E se le contromosse non sono partite, forse è per una «dissennata sottovalutazione dei danni che ci può fare questa cosa, si rischia di azzerare tutto il lavoro fatto per il referendum», sbuffa un dirigente romano.
Ecco, dopo le lamentazioni dei renziani inviperiti, la spiegazione di una messa in sicurezza della «ditta» da parte del premier dà una chiave di lettura possibile e apre uno squarcio su un problema vero. È forse uno - solo uno - dei motivi per cui Renzi, sempre attentissimo al nodo dei costi della politica, ha accettato che il Pd si facesse prendere in contropiede. L’altro lo ammette un alleato come il presidente della commissione Affari Costituzionali Andrea Mazziotti ex Scelta Civica: sui costi della politica il Pd è in difficoltà, anche sui vitalizi stenta ad andare avanti. Sugli stipendi dei parlamentari, quando il problema si pose quest’estate Mazziotti chiese senza ottenerla una riunione di maggioranza, «perché ci sono diverse proposte di legge depositate e potevamo parlarne per tempo...».