La Stampa 24.10.16
Renzi sfida l’Ue: la manovra non cambierà
Attesa per oggi la lettera di richiamo “Entrate incerte e troppe una tantum
L’irritazione di Bruxelles: “L’Europa rischia la fine non rispettando le regole”
La Commissione: con voi già usato ogni margine di flessibilità
di Marco Zatterin
«L’Europa
rischia la fine se le regole che gli Stati si sono date non sono
rispettate e perdono di credibilità». La voce che rompe il silenzio a
cui Bruxelles s’è votata sulle questioni italiane è imbevuta di
asprezza. Suona irritata per il campionato di braccio di ferro a cui il
governo Renzi sta costringendo le istituzioni europee sui numeri della
manovra. I pochi che parlano si sentono traditi e confessano che «Roma
non ci sta aiutando ad aiutarla». Così, ora, potrebbe succedere di
tutto.
«Con voi abbiamo usato ogni margine di flessibilità»,
assicura un pezzo grosso di casa Ue, un po’ seccato, un po’ deluso. Il
premier, protesta, «va in giro a dire che per colpa nostra non costruirà
le scuole di Amatrice». La realtà, giura, è un’altra. È che «sulle
spese d’emergenza non ci saranno problemi», perché «il nodo è una
manovra che, così come l’hanno presentata, solleva una serie di
interrogativi, quasi tutti strutturali».
C’è chi si chiede prima
se questo duello sia davvero necessario e poi domanda lumi su come vanno
i sondaggi pre-referendari. E chi prova a sdrammatizzare riciclando una
vecchia barzelletta sulla Russia sovietica per dare l’idea dell’umore
con cui viene letto il caso italiano. Racconta di un maestro elementare
che domanda agli alunni «quanto fa 44 più 44?». Uno alza la mano e
risponde «133». Il vecchio insegnate sbuffa. Replica che «no, 44 più 44
fa 88» e che «potrebbe fare 87 oppure 89, ma comunque mai 133». Il senso
della battuta della fonte europea è che il deficit strutturale
nazionale (quello al netto del ciclo e delle una tantum) dovrebbe
«migliorare dello 0,6», che potrebbe anche «fare 0,1, ma non crescere
dello 0,4 o dell’1,6».
La storia è rivelatrice dei dubbi tecnici
europei. L’esame della manovra inviata a Bruxelles fissa al 2,3%
l’obiettivo per il deficit 2017, un decimo in più rispetto al 2,2 su cui
ci si era accordati. «Poca roba dal punto di vista contabile»,
assicurano le fonti, anche perché è sostanzialmente scontato che - cent
più, cent meno - la parte di fabbisogno legata alle maggiori uscite per
il terremoto e i migranti salvati nell’indifferenza generale verrà
sdoganata senza malanimi. L’incognita vera è la solidità strutturale del
decreto fiscale. Le coperture. Troppe “una tantum”, troppe
entrate-scommessa, troppo aleatori i numeri su privatizzazioni, lotta
all’evasione, voluntary disclosure, tagli di spesa, tutte cose che
potrebbero non succedere come previsto e, quindi, «corrono il rischio
d’imporre correzioni».
Da mesi la Commissione Ue, che arbitra il
coordinamento della politica economica continentale e vigila sul
rispetto degli impegni assunti dalle capitali, ha deciso di dare una
mano all’Italia. In effetti, dal vertice di Ypres del 2014 a oggi, Roma
ha avuto più margini di maggiore flessibilità di tutti (19 miliardi).
Nonostante ciò, ha continuato a chiedere eccezioni e urlare contro
l’austerity, rimettendo sempre in gioco le assicurazioni date. Il
pareggio di bilancio, per dirne una, è slittato di tre anni, con
decisioni che hanno sempre messo Bruxelles davanti al fatto compiuto.
Sono cose che non piacciono al Team Juncker, come all’Eurogruppo, che
nutrono la sensazione d’aver di fronte un interlocutore che sfrutta la
benevolenza per non realizzare quello di cui avrebbe bisogno.
La
questione è anche politica. «Talvolta penso che l’Italia non si renda
conto di avere ventisette partner», punge una fonte diplomatica di un
grande paese. Il senso della frase lo illustrano in Rue de la Loi. «Chi
glielo dice agli spagnoli, che hanno fatto riforme con la Troika in
casa, che all’Italia si concede il credito che a loro non abbiamo
dato?». Si può arguire che la Francia è pure renitente agli impegni; la
risposta è che Parigi è in procedura e Roma no. Questo non toglie che la
Commissione vorrebbe sostenere l’Italia e tuttavia c’è un limite oltre
il quale non può spingersi: la suscettibilità degli altri paesi.
«Vogliamo
continuare a dialogare», è la formula che meglio unisce ufficialità e
verità del pensiero comune a Bruxelles, dove la parole di Padoan a
«Repubblica» sono state davvero mal digerite. Il Team Juncker è
consapevole del rischio referendario, preferisce Renzi a ogni
alternativa provvisoria che si potrebbe profilare se il governo cadesse.
Teme però la debolezza italica. «Ho paura del momento in cui i tassi
cominceranno a salire - concede un pezzo grosso dell’Unione -, vi
trovereste in grossissimi guai». Pensa agli oneri aggravati per servire
il debito, ai conti che potrebbero sballare, all’instabilità che ne
deriverebbe, al possibile effetto domino che potrebbe scattare una volta
che si terminerà l’acquisto di bond da parte della Bce. Renzi e Padoan
tutto questo lo sanno benissimo. I contatti fra Roma e Bruxelles sono
continui e quando, stasera, arriveranno in via XX Settembre le domande
della Commissione ci sarà poco da essere sorpresi. Ai piani alti di
Palazzo Berlaymont, dove si preferirebbe non mettere piede nella contesa
elettorale, ci si chiede però come reagire davanti al «dubbio» che il
premier cerchi lo scontro con l’Europa perché crede che possa
garantirgli consensi referendari. Avrebbero voluto negoziare col Tesoro
una via morbida per rinviare ogni giudizio a dopo il 4 dicembre. Le
circostanze complicano il quadro e impongono creatività diplomatica. Al
posto di un percorso negoziale coordinato si è finiti in un duello che
rende le soluzioni più ponderose e gli scenari di crisi, anche i
peggiori, meno improbabili.