lunedì 17 ottobre 2016

La Stampa 17.10.16
Il peso della crisi nella corsa alla Casa bianca
di Marta Dassù

Se chiedete a una famiglia media americana quale sia la principale fonte di ansietà finanziaria, la risposta è in genere questa: i costi dell’istruzione e della sanità. Come dimostrano una serie di dati sullo stato dell’economia degli Stati Uniti pubblicati da Vox, i servizi stanno diventando molto più costosi di un tempo mentre il prezzo dei beni manufatti (l’America continua a produrre una quantità di cose) è diminuito notevolmente, insieme al numero dei posti di lavoro in questo settore. A differenza di parte dell’Europa, l’economia degli Stati Uniti si è ripresa abbastanza rapidamente dalla crisi finanziaria del 2007-2008 e oggi cresce a tassi attorno al 2%. Tuttavia, la produttività sta aumentando molto più lentamente di quanto non accadesse da decenni (lo sottolinea anche Barack Obama su The Economist); e questo si traduce, per la popolazione con redditi medio-bassi, nel declino percepito degli standard di vita. Sta qui – al di là di dati che vanno e vengono sulla curva dei redditi e dell’occupazione – la ragione essenziale del «disincanto» palpabile del cittadino medio americano: la percezione è che le proprie condizioni di vita non stiano migliorando. Per la prima volta dal secolo scorso, i figli della classe media staranno peggio dei genitori. L’ansia sui costi dell’istruzione e della sanità è un simbolo della rivoluzione in corso: il passaggio a una fase politica e sociale segnata da aspettative decrescenti.
Ralf Dahrendorf, grande sociologo tedesco-britannico scomparso pochi anni fa, aveva intuito subito che la conseguenza essenziale della crisi finanziaria del 2007-2008 non sarebbe stata economica ma politica. In sostanza: Dahrendorf aveva capito che, con aspettative decrescenti, sarebbe entrata anche in crisi la democrazia americana, retta per decenni dalla vitalità della classe media e dalla convinzione di un progresso illimitato. Siamo appunto arrivati a questo rischioso passaggio, come dimostra la campagna elettorale del 2016. È lo scontro ruvido – fatto di dibattiti brutti, ancora prima che brutali – fra due candidati che piacciono poco entrambi (l’indice di gradimento rispettivo è fra il 40 e il 50%) e che sono impegnati in un gioco delle parti abbastanza paradossale. Trump, dall’alto dei suoi milioni di dollari (guadagnati, persi, e poi non denunciati), difende la gente contro l’establishment, incluso quello repubblicano. È il meccanismo tipico del populismo, mescolato al nativismo e al protezionismo (la difesa dei bianchi contro le minoranze, della «rust belt» contro New York o San Francisco, dei maschi contro le donne, dell’America contro la Cina e via dicendo). Hillary Clinton, che dell’establishment americano è un prodotto quasi dinastico, rivendica la propria esperienza politica. Ma la verità è che, per vincere, è costretta a distanziarsi prima di tutto da se stessa: la Hillary del 2016, che difende con convinzione Main Street contro Wall Street, è più radical di quanto sia mai stata. Il «centro» della politica americana ne viene apparentemente travolto; dovrà essere ricostruito perché il prossimo presidente riesca a governare.
La Rivoluzione delle aspettative decrescenti, infatti, cambia la natura del conflitto politico: la linea di divisione non è più quella novecentesca fra destra e sinistra ma passa fra la gente e la «casta», in un clima di polarizzazione sempre più estrema; fra finanza ed industria; fra apertura e chiusura del Paese, in una fase che gli economisti cominciano a definire di «de-globalizzazione». Esposti a queste pressioni, i partiti tradizionali si sfaldano (il Grand Old Party) o resistono dominati da pochi (il partito democratico). La posta in gioco sono quel terzo di indecisi che oscillano, fra un dibattito al veleno e una «sorpresa di ottobre». E intanto – come ha dimostrato il precedente di Brexit – i sondaggi non riescono più a cogliere le tendenze reali. Nell’età delle incertezze, valgono le scommesse più delle previsioni. La mia personale scommessa è che alla fine Hillary ce la farà, grazie anche ad un sistema elettorale che tende a correggere il voto popolare. Perché la presidenza della prima donna alla Casa Bianca sia utile – alla democrazia americana e alle democrazie occidentali – è indispensabile che la crisi identitaria che sta vivendo l’America «media» non sia trattata soltanto come un problema economico (naturalmente lo è) ma anche come il grande problema politico dell’epoca attuale.