La Stampa 10.10.16
On line due secoli di manicomi
«Se non erano sani non li volevano»
Donne
depresse o “troppo erotiche”, bambini ribelli, socialisti, mazziniani,
anarchici: catalogati come matti Vanno online due secoli di storia dei
manicomi italiani, con cartelle cliniche e diagnosi sorprendenti
di Ariela Piattelli
Se
la Monaca di Monza fosse nata due secoli dopo, probabilmente sarebbe
finita in un ospedale psichiatrico con una diagnosi di «mal d’amore». È
stato presentato nel complesso di Santo Spirito in Sassia di Roma «Carte
da legare. Archivi della psichiatria in Italia», il progetto del Mibact
che per la prima volta archivia, organizza e rende disponibile a tutti
attraverso un sito la storia dei manicomi d’Italia.
Una storia che
va dai primi dell’800 agli anni 60 del secolo scorso, con tanto di
cartelle cliniche, statistiche e diagnosi. «Tutta la grande storia si
conserva nelle cartelle cliniche dei manicomi - spiega Micaela
Procaccia, responsabile del progetto per la direzione generale degli
archivi - e sono uno strumento per interpretare la società».
Le «malattie» religiose
Il
progetto documenta due secoli di emarginazione sociale, economica e
culturale, di donne rinchiuse perché troppo chiacchierone o «affette» da
sensualità, bambini poveri, segregati perché vivaci e irrequieti,
uomini con diagnosi politiche, etichettati come «mazziniani» o
«repubblicani». Dalle carte emerge lo sguardo di come «i sani» e i
dottori guardavano ai «matti» (spesso presunti).
Donne segregate
perché «troppo erotiche», petulanti, impertinenti e ribelli, o alle
quali è stata diagnosticata la «malattia» della depressione post partum.
«Ciò che emerge è che la ribellione viene punita con una diagnosi di
malattia mentale - continua Procaccia -, dove, ad esempio, il “mal
d’amore” coincide con la depressione per essere state lasciate. I
manicomi sono stati anche strumento di contenimento, di controllo
sociale, e ci finiscono spesso le categorie di persone che danno
fastidio». Una cartella clinica racconta di una fanciulla di buona
società campana che fu rinchiusa per comportamenti devianti non consoni a
una brava ragazza della sua epoca. C’è pure la storia di Violet Gibson,
la donna che attentò alla vita di Benito Mussolini e che fu internata
in un manicomio in Gran Bretagna: era considerata matta anche perché non
aveva il desiderio di tirar su famiglia. I bambini rinchiusi, perché
ribelli o scatenati, sono poveri, ai margini della società, e la
segregazione nei manicomi li ha progressivamente allontanati dalla
realtà.
«Socialisti», «mazziniani», «anarchici» e «repubblicani»
sono alcune tra le diagnosi con motivazioni politiche che giustificavano
il ricovero di personaggi scomodi. Uomini vagabondi, o reputati
improduttivi, finivano nei manicomi e negli ospedali psichiatrici. C’è
anche la storia del commissario di pubblica sicurezza Giuseppe Dosi,
noto alle cronache per aver smontato le prove che incastravano
ingiustamente Gino Girolimoni, accusato di stupri e omicidi: venne
internato nel manicomio criminale di Regina Coeli e poi fu riabilitato.
Tra le diagnosi «religiose» spunta una donna, «la pazza vestita da
frate», mentre la storia delle strutture narra deportazioni di ebrei dal
manicomio di Venezia, e di altri che vi si nascondevano per sfuggire le
razzie.
I traumi da trincea
«Tra il ’18 e il ’19 negli
ospedali psichiatrici, in particolare nel Veneto, c’è un innalzamento di
ricoveri di soldati che hanno avuto il trauma da trincea - spiega
Procaccia -. E lo stress post traumatico viene scambiato per malattia
mentale». Il picco dei ricoveri che si registra a partire dalla fine
della Prima guerra mondiale per traumi da trincea è dato dalle reazioni
scomposte dei «matti» a forti rumori, sintomo, stando alle cartelle
cliniche, di malattia mentale.
Basta registrarsi al sito per
consultare le cartelle cliniche, da cui sono stati rimossi i nomi. Un
software all’avanguardia, studiato da «Memoria Archivi», permette di
avere accesso a tutte le informazioni, contenuti multimediali, immagini,
manoscritti, statistiche e alla mappatura dei manicomi in Italia.
«Abbiamo iniziato questo cammino nel ’99, e oggi è possibile condividere
uno straordinario patrimonio - conclude Procaccia -. Abbiamo slegato i
“matti” e legato le carte».