Il Sole Domenica 9.10.16
...e il filosofo morale
La libertà di essere un fine
di Giuseppe Bedeschi
Benché
Kant abbia tenuto, tra il 1767 e il 1788, dodici corsi universitari sul
diritto naturale, a noi è rimasta una sola trascrizione manoscritta:
quella del semestre estivo del 1784 (nota come Naturrecht Feyerabend,
dal nome del suo possessore), che esce ora per la prima volta in
traduzione italiana (presso Bompiani), a cura di Gianluca Sadun Bordoni,
il quale ha premesso al testo kantiano una acuta introduzione e vi ha
apposto un ricco apparato di note.
Il cosiddetto Naturrecht
Feyerabend è un testo di grandissimo interesse: infatti, mentre svolgeva
tale corso, Kant ultimò la redazione della Metafisica dei costumi: di
qui i numerosi parallelismi tra le due opere, a volte assai stretti, che
meritano di essere considerati attentamente.
Al centro della
meditazione kantiana è il nesso libertà-ragione. Già nelle lezioni di
filosofia morale degli anni settanta Kant aveva detto che «la libertà è
il grado più alto della vita» ed è «il valore intrinseco del mondo». Il
manoscritto del 1784 svolge su questo punto considerazioni assai
importanti. «Il valore intrinseco dell’uomo – dice il filosofo – si
fonda sulla sua libertà, sul fatto che egli possiede una propria
volontà. Dato che egli deve essere il fine ultimo, la sua volontà non
deve dipendere da null’altro».
Anche gli animali hanno una
volontà, ma non hanno una volontà propria, bensì la volontà della
natura. La libertà dell’uomo, invece, è la condizione sotto la quale
l’uomo può essere un fine in se stesso, nel senso che egli regola le
proprie azioni secondo fini degni di lui, e quindi non tratta (non deve
trattare mai) i propri simili come mezzi. Perciò alla libertà umana è
indissolubilmente connessa la ragione. Infatti, “senza ragione un ente
non può essere fine in se stesso: perché non può essere cosciente della
sua esistenza, non può riflettere su di essa”. Ma attenzione: la ragione
non costituisce ancora la causa per cui l’uomo è scopo in se stesso.
Noi vediamo infatti che la natura produce negli animali attraverso
l’istinto ciò che la ragione scopre attraverso tortuosi cammini.
Separata dalla libertà, la ragione può ricadere interamente nel
meccanismo della natura: in tal modo noi non saremmo migliori degli
animali. Dunque, soltanto la libertà fa sì che noi siamo scopi in sé.
«Qui abbiamo la capacità di agire secondo il nostro proprio volere», e
quindi di perseguire le finalità più alte.
Kant non esita ad
affermare di non sapere «come io possa comprendere tale libertà». E
tuttavia, egli dice, essa è un’ipotesi necessaria, se devo pensare enti
razionali come scopi in sé. Se l’ente umano non è libero, allora egli è
nelle mani di un altro, dunque è sempre scopo di un altro, cioè è un
semplice mezzo. «La libertà quindi non è solo la condizione suprema, ma
anche quella sufficiente».
La libertà diventa così la chiave di
volta tanto del mondo morale quanto del mondo etico-politico. Infatti
per Kant uno dei princìpi a priori sui quali deve essere fondato lo
Stato in quanto Stato giuridico, è la libertà. Tale principio significa,
dice il filosofo, che «nessuno mi può costringere ad essere felice a
suo modo (cioè come egli immagina il benessere degli altri uomini), ma
ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona,
purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo
stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la
libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non
leda questo diritto degli altri)».
Sicché Kant affermava in modo
perentorio che un governo paternalistico, in cui i sudditi, come figli
minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso,
sono costretti ad aspettare che il Capo dello Stato giudichi in qual
modo essi devono essere felici, è il peggior dispotismo che si possa
immaginare.
Immanuel Kant, Lezioni sul diritto naturale (Naturrecht Feyerabend) ,
a cura di Norbert Hinske e Gianluca Sadun Bordoni, Bompiani, Milano, pagg. 305, € 50