giovedì 20 ottobre 2016

Il Sole 20.10.16
I tempi lunghi della transizione di Pechino
di Giuliano Noci

I tifosi della “decrescita infelice” dell’economia cinese le studiano tutte. L’esercizio si appoggia vuoi sulla cautela espressa da un passo di una nota del China’s National Bureau of Statistics («le basi strutturali di una crescita economica continuativa non sono ancora sufficientemente solide») vuoi sul pessimismo di Zhu Haibin, capo del settore Cina alla JP Morgan di Hong Kong il quale afferma che «solo il commercio al dettaglio e gli investimenti hanno rispettato le previsioni», mentre l’unica delusione proviene dalla produzione industriale, cresciuta al ribasso del 6,1 % a settembre, un numero secondo Zhu “pretty soft”. Ma i dati pubblicati ieri dall’ufficio di statistica cinese evidenziano una tabella di marcia della crescita del Paese coerente con gli obiettivi fissati dalla leadership. “Stabile” è stata generalmente giudicata la performance dell’economia nazionale, con una crescita migliore delle aspettative. E come sempre più spesso capita in questi mesi il coro pressoché unanime lamenta il fardello del debito, la bolla del real estate e la overcapacity di taluni settori produttivi (in primis, l’acciaio), tre temi capaci di far vedere i sorci verdi ai politici cinesi.
Ma ci troviamo ancora una volta a fronteggiare un isomorfismo di pensiero non coerente con il reale stato dell’economia cinese. Il Governo cinese per primo è infatti consapevole che un modello di crescita trainato dagli investimenti ha il fiato corto. Da qui i tre pilastri fondamentali della trasformazione: 1) facilitare l’incremento della produttività della manifattura cinese ; 2) liberare, anche attraverso l’ecommerce, l’enorme potenziale di spesa della classe media cinese (il cui livello si attesta oggi al 20% di quello dei Paesi avanzati); 3) sostenere la crescita del capitale umano avendo deciso di mettere sul tavolo oltre 200 miliardi di dollari all’anno a sostegno del sistema universitario. Azioni concrete dunque che spalancano spazi di crescita, in chiave comparata con l’occidente, enormi. Tutto questo non significa che non vi siano questioni da affrontare con la dovuta attenzione. Esiste, sicuramente, un “problema debito” sia nell’ammontare – triplicato negli ultimi 7 anni - che nella sua qualità – oltre 200 miliardi di $ di Npl -. Ma è tuttavia esagerato l’allarme che da più parti si lancia. In un’economia a forte controllo governativo infatti non tutti i (cattivi) debiti delle banche si trasformano in perdita netta; le riserve di liquidità della Banca centrale sono peraltro tali che anche l’opzione meno auspicabile (intervento pubblico diretto) appare ancora oggi del tutto gestibile. I prezzi e i volumi del real estate sono certamente esplosi in quasi tutta la Cina. Anche qui, due considerazioni: larga parte delle transazioni realizzate negli ultimi anni sono realizzate dalle famiglie, che notoriamente manifestano in Cina una elevata propensione al risparmio; al rischio paventato di un crollo dei prezzi si contrappone il dato di 400 milioni di persone che premono verso le città aprendo enormi spazi di occupazione (e sostegno dei prezzi). Infine per quel che concerne l’industrial overcapacity c'è ovviamente molto da fare; non si può dire comunque che manchino sforzi per aumentare il contenuto di valore aggiunto dell’output cinese; dal 2007 al 2015 gli investimenti in R&S sono aumentati del 120% (passando da 50 a 400).