Il Sole 16.10.16
A proposito dell’appello per il liceo classico
Il problema è la difficoltà, non il latino
di Luca Ricolfi
Non
so esattamente perché, ma ho sempre detestato gli appelli. Forse perché
sono troppi, e i personaggi pubblici ne abusano (come i radicali con i
referendum). O forse perché, assai spesso, sembrano strumenti di
autopromozione dei firmatari, più che mezzi adeguati per risolvere i
problemi che sollevano. Insomma, quali che siano le origini della mia
diffidenza, non ho mai firmato appelli. Anzi, mi sono dato una regola:
non firmare mai un appello, anche se lo condividi al 100%.
Oggi
però sono crollato. Ho violato la mia regola, e ho firmato un appello,
il primo (probabilmente l’unico) della mia vita. Non me la sentivo di
non aderire. Così, venerdì ho aggiunto la mia minuscola firma alle 9.964
che già erano state raccolte. Probabilmente, nel momento in cui leggete
questo articolo, le firme avranno superato la barriera delle 10mila,
tantissime per il tipo di argomento considerato.
Di che cosa si tratta?
Si
tratta della lettera-appello contro l’abolizione, parziale o totale,
della traduzione dal latino e dal greco nell’esame di maturità (una
proposta lanciata qualche mese fa dall’ex ministro dell’Istruzione Luigi
Berlinguer a un convegno milanese).
Qui non voglio aggiungere
alcun argomento alle limpide e convincenti parole dell’appello, il cui
testo è direttamente consultabile su internet (indirizzo
http://taskforceperilclassico.it/t/, utile anche per eventuale firma).
Quello che vorrei fare, invece, è raccontare come può vedere le cose
chi, come me, fa il sociologo e insegna materie scientifiche (matematica
e analisi dei dati) agli studenti universitari.
Ebbene, io sono
convinto che la vera posta in gioco non sia la sopravvivenza della
cultura classica nel nostro Paese. Certo, tutto fa pensare che la nostra
epoca sia una sorta di contro-Rinascimento, un tempo in cui il pendolo
fra l’ammirazione per i classici e la venerazione delle novità oscilla
decisamente a favore di queste ultime. E, se devo fare una previsione,
sono perfettamente persuaso che si continuerà sulla strada già imboccata
con la soppressione della storia antica dalla scuola media inferiore:
nelle scuole secondarie del futuro lo spazio riservato alla civiltà
greco-romana da cui proveniamo sarà sempre più ristretto.
E
tuttavia a me pare che la ragione vera per cui si vuole (e quasi
certamente si riuscirà) abolire la traduzione dal latino e dal greco non
sia l’incapacità di apprezzare la cultura classica, o la volontà di
promuovere la cultura scientifica, o il desiderio di modernizzare e
svecchiare la scuola. No, la vera ragione è molto più terra-terra: la
traduzione dal latino e dal greco, insieme ad alcune parti della
matematica (nei casi in cui vengono effettivamente insegnate), è rimasto
l’ultimo compito davvero difficile della scuola secondaria superiore. È
questo, semplicemente questo, che rende attraenti le tesi degli
abolizionisti. È questo che – prima o poi – consentirà loro di imporsi.
Perché, non nascondiamocelo, la domanda degli studenti e delle loro
famiglie non è di alzare l’asticella, ma di abbassarla sempre più, come
in effetti diligentemente facciamo da almeno quattro decenni.
È
questo, il livello dell’asticella, che fa la differenza fra una buona
scuola e una scuola mediocre. Ed è questo, la tenace volontà di tenerla
bassa, il non-detto che accomuna buona parte delle innovazioni nella
scuola e nell’università. Se così non fosse, alla progressiva erosione
dello spazio del latino e del greco, con la soppressione dell’analisi
logica nella scuola media inferiore, la scomparsa quasi universale della
traduzione dall’italiano, l’istituzione di licei scientifici “ma senza
latino”, si accompagnerebbe l’introduzione di soggetti ritenuti più
interessanti, o più utili, o più formativi, ma altrettanto impegnativi.
Giusto per fare qualche esempio: studio del cinese, compresi gli
ideogrammi; logica e calcolo simbolico; teoria della relatività;
meccanica quantistica; filologia classica o moderna; algebra astratta;
linguaggi di programmazione evoluti (al posto del ridicolo insegnamento
del pacchetto Microsoft Office).
Ecco perché dico che la cultura
classica non è la vera posta in gioco. Le minacce alla cultura classica
vengono un po’ da tutte le parti, ma il suo vero tallone di Achille è
che c’è un momento di essa, quello in cui prendiamo in mano un testo di
2000 anni fa e proviamo a tradurlo, che richiede un livello di
organizzazione mentale che non siamo più capaci di fornire a tutti. Per
questo, essenzialmente per questo, la traduzione dal greco e dal latino è
entrata nel mirino della politica. Non tanto perché «non è utile»
(quasi nulla di ciò che si insegna a scuola ha un’utilità immediata), ma
perché è difficile, molto difficile.
Si potrebbe obiettare:
perché mai dobbiamo difendere le cose difficili? Non c’è un po’ di
sadismo nel rifiuto di alleggerire gli studi?
È arrivati a questo
punto, a questo nodo del problema, che mi sono convinto che, proprio per
il lavoro che faccio, non potevo non firmare l’appello. Perché quel che
osservo nel mio lavoro di docente universitario non mi può lasciare
indifferente.
Quel che vedo è terribile. Ci sono studenti,
tantissimi studenti, che non hanno alcun particolare handicap fisico o
sociale eppure sono irrimediabilmente non all’altezza dei compiti
cognitivi che lo studio universitario ancora richiede in certe materie e
in certe aree del Paese. Essi credono di avere delle “lacune”, e quindi
di poterle colmare (come si recupera un’informazione mancante
cercandola su internet), ma in realtà si sbagliano. Per essi non c’è più
(quasi) nulla da fare, perché difettano delle capacità di base, che si
acquisiscono lentamente e gradualmente nel tempo: capacità di astrazione
e concentrazione, padronanza della lingua e del suo lessico, finezza e
sensibilità alle distinzioni, capacità di prendere appunti e organizzare
la conoscenza, attitudine a non dimenticare quel che si è appreso.
La
scuola di oggi, con la sua corsa ad abbassare l’asticella, queste
capacità le fornisce sempre più raramente. E, quel che è più grave,
questa rinuncia a regalare ai giovani una vera formazione di base non
avviene certo in nome di un’istruzione “utile”, ovvero all’insegna di
uno sviluppo delle capacità professionali, ad esempio sul modello
tedesco dell’alternanza scuola-lavoro. No, il modello verso cui stiamo
correndo a fari spenti è quello della liceizzazione totale: la scuola
secondaria superiore è oggi un gigantesco liceo che non è più in grado
di erogare una preparazione di base decente, e proprio per questo induce
l’università a trasformarsi essa stessa in un immenso e tardivo liceo.
L’unico
baluardo che resta in piedi sono quelle scuole, ma forse sarebbe meglio
dire – quegli insegnanti – che non hanno rinunciato a spostare
l’asticella sempre più in su, per mettere i loro allievi nelle
condizioni di affrontare qualsiasi tipo di studio, umanistico o
scientifico che sia. È grazie a queste scuole e a questi insegnanti che
all’università, nonostante tutto, arrivano ancora drappelli di studenti
in grado di ricevere un’istruzione universitaria, e le materie più
complesse non sono ancora state abolite del tutto.
Ma si tratta di
eccezioni, non di rado provenienti dalla minoranza di studenti (circa
il 6%) che ancora scelgono il liceo classico, con la sua aborrita prova
di traduzione dal latino e dal greco. La regola, purtroppo, è che chi ha
un diploma di maturità non è in grado di frequentare un’università che
non abbia drasticamente abbassato gli standard. È per questo che sto con
la lettera-appello sulla traduzione dal latino e dal greco. Per me
quella lettera non difende semplicemente la cultura classica, il latino o
il greco. Quell’appello, difendendo l’ultima prova veramente difficile
rimasta in piedi nella scuola, difende anche un’idea più generale: che
se non vogliamo privare i nostri ragazzi delle capacità di cui prima o
poi avranno bisogno, dobbiamo regalargli studi degni di questo nome, e
smetterla di proteggerli da ogni sfida che possa metterli davvero alla
prova.