il Manifesto 5.10.16
Un omicidio chiamato «epilessia»
Stefano
Cucchi. Non è il perito Introna a dover definire il nesso causale tra
violenze subite e morte. Saranno i magistrati a farlo. Dal canto nostro,
pensiamo che sia possibile arrivare a un processo per omicidio
preterintenzionale
di Ilaria Cucchi, Luigi Manconi
Per
parlare dell’ultimo capitolo del cosiddetto «caso Cucchi», è forse
utile partire dall’ultimo capitolo del cosiddetto «caso Uva». Una
settimana fa la Procura generale di Milano ha impugnato la sentenza con
la quale i giudici della Corte d’assise di Varese avevano assolto due
carabinieri e sei poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale ai
danni di Giuseppe Uva.
La notizia, ampiamente trascurata da tutti
i media, è clamorosa: e sottrae a quello che sembrava un oblio fatale
una vicenda che ha conosciuto un particolare «accanimento giudiziario»,
destinato a mortificare la verità, da parte di procuratori poi
moralmente e disciplinarmente sanzionati. Il primo responsabile di
questo scempio è un pubblico ministero, Agostino Abate, che, infine, è
stato trasferito – ma è tuttora titolare di un ufficio – per aver
trattenuto per 26 anni il fascicolo relativo all’omicidio di una giovane
donna, Lidia Macchi. Non troppo diversamente Abate si è comportato col
fascicolo relativo alla morte di Uva. E ha trovato altri magistrati
disposti a tenergli bordone. Ma ecco, finalmente, l’appello della
Procura generale di Milano. La quale, senza mezzi termini, parla di una
sentenza di primo grado motivata «in modo estremamente sommario» e non
condivisibile su una serie di punti essenziali.
I giudici di
Varese avevano escluso la configurabilità dell’omicidio
preterintenzionale per insussistenza di atti diretti a percuotere o
ledere, ma – secondo il procuratore di Milano – anche solo
l’ammanettamento e la costrizione fisica integrano «certamente una
manomissione» della persona di Uva. Inoltre, devono ritenersi provati
anche «gli atti diretti a commettere il delitto di lesioni personali»,
in quanto ben tre testimoni li hanno confermati e sarebbero l’unica
spiegazione plausibile di una serie di ferite riscontrate sul corpo di
Uva (mentre, di esse, nella sentenza di primo grado non era stata data
alcuna spiegazione).
Infine, il tribunale di Varese aveva
accertato la sussistenza del sequestro di persona, ma i due carabinieri
erano stati assolti perché incorsi in un «errore scusabile»: non
sapevano di stare commettendo un reato trattenendo Uva in caserma per
oltre due ore senza alcun fondamento. La procura generale di Milano, al
contrario, ritiene che gli imputati «limitarono illegittimamente la
libertà personale di Uva», in maniera deliberata e con la consapevolezza
di infliggere una illegittima privazione della sua libertà personale.
Come
non pensare a tutto ciò mentre la gran parte dei media ci racconta che
sette anni fa, Stefano Cucchi – picchiato recluso abbandonato umiliato
per sei lunghissimi giorni e notti – è morto «di epilessia»? In questo
tempo che ci separa dal 22 ottobre del 2009, ogni scadenza prevista per
sciogliere i dubbi enormi che gravano su quella morte si è esaurita,
senza che le tante indagini, i diversi gradi di processo, la
mobilitazione dell’opinione pubblica e l’impegno dei familiari
trovassero un’adeguata risposta, almeno un qualche sollievo e un po’ di
pace. Fino all’altro ieri. Quando sono state depositate le 205 pagine
della perizia di ufficio firmata dal collegio presieduto da Francesco
Introna e richiesta dal giudice per le indagini preliminari nell’ambito
dell’incidente probatorio per il processo bis.
È un documento che
si dipana lungo un labirinto di ipotesi affermate e negate insieme, di
proposizioni enigmatiche, di dinieghi complici e accortamente
predisposti, ma proviamo qui a evidenziarne i passaggi fondamentali.
Dopo tanti conflitti a colpi di consulenze tecniche, finalmente questa
perizia riconosce senza dubbio alcuno la frattura della vertebra L3.
Questo accertamento è, tuttavia, oscurato, attraverso l’indicazione di
due possibili cause di morte: ed è proprio qui cha fa il suo ingresso in
scena l’incredibile ipotesi dell’epilessia. In questi sette anni, ne
abbiamo sentite – alla lettera – di tutti i colori: Stefano Cucchi è
morto di fame e di sete, ma anche forse in quanto «anoressico», e perché
si drogava.
Leggere adesso che la causa di decesso più probabile
sia l’epilessia – pur concludendosi che la stessa ipotesi è «priva di
riscontri oggettivi» – induce a chiederesi quale sia la competenza
professionale cui hanno fatto ricorso tali mirabili esperti.
La
seconda ipotesi, d’altro canto, riconosce tutte le risultanze cliniche
già evidenziate dai medici legali della parte civile, la più importante
delle quali riguarda il ruolo del globo vescicale come causa di morte in
conseguenza delle fratture. Il nesso causale si sostanzierebbe nei
seguenti passaggi: frattura che provoca la ritenzione urinaria, la quale
provoca il globo vescicale, il quale determina «un’intensa stimolazione
vagale»; e questa, a sua volta, cagiona la brachicardia che porta
Stefano Cucchi alla morte.
Si dovrebbe esser soddisfatti per
questo esito, se non fosse che il presidente del collegio dei periti,
piuttosto che limitarsi al ruolo di medico legale, finisce con
l’auto-investirsi di una funzione giudicante e tira le sue conclusioni:
«Chi ha picchiato selvaggiamente Stefano Cucchi non è responsabile della
sua morte». Perché tanto zelo? Forse perché se, per esempio, gli
infermieri avessero semplicemente fatto, loro sì, il proprio lavoro, il
decesso non sarebbe sopraggiunto.
In altre parole, non è il perito
Introna così come non siamo noi, a dover definire il nesso causale tra
violenze subite e morte. Saranno i magistrati della procura di Roma e i
giudici a farlo. Dal canto nostro, pensiamo che con questa perizia sia
possibile arrivare a un processo per omicidio preterintenzionale.
In
questo scenario drammatico cerca di trovare un suo spazio la figura
grottesca del parlamentare Carlo Giovanardi: uomo che appare
desolatamente infelice, affetto da una pulsione necrofila che lo induce a
inseguire le morti più tragiche per diffamare le vittime e sfregiarne
la memoria. Si immagina come tutore dell’onore delle forze di polizia e
ne risulta il principale nemico. L’effetto delle sue sgangherate parole
è, infallibilmente, quello di omologare interi corpi come quello dei
carabinieri, della polizia di stato e di quella penitenziaria, al
comportamento illegale di quei pochi, pochissimi, che si sono resi
responsabili di crimini.