il manifesto 29.10.16
La psicoanalisi e la crisi della qualità
di Sarantis Thanopulos
In
 un recente convegno sulla crisi del lavoro e le sue ripercussioni nel 
campo della cura psichica, organizzato dal Centro Napoletano di 
Psicoanalisi, lo psicoanalista francese Christophe Dejours ha descritto 
il declino di un ospedale psichiatrico parigino per via del 
neoliberismo.
Il lavoro psicoterapeutico che aveva dato prestigio 
all’ospedale, è stato sostituito dal trattamento farmacologico, più 
economico e sbrigativo. La mentalità neoliberista che ha espugnato il 
luogo di cura, può essere sintetizzata nella risposta di un dirigente 
alle proteste del personale: «Noi abbiamo a che fare con persone rozze, a
 cui i farmaci vanno bene, e voi volete offrire sovra-qualità».
Come
 se la passa la psicoanalisi in questi tempi di grande incertezza 
lavorativa e di marginalizzazione sociale di vasti strati della 
popolazione?
In realtà la domanda di trattamento analitico resta 
alta (anche per la crescente difficoltà delle strutture pubbliche di 
offrire un sostegno adeguato), ma è più generica e meno consapevole.
Il
 lavoro degli psicoanalisti è più faticoso perché si svolge in 
condizioni lontane da quelle ottimali e controcorrente. L’adesione 
collettiva a modelli «pratici» dell’esistenza, la prevalenza del 
supporto materiale sulla «carne viva» dell’esistenza, la ricerca 
ossessiva della stabilità e della sicurezza come valori in sé, 
conferiscono al lavoro analitico il carattere di un’(auto)educazione 
«sentimentale» dell’analizzando verso la riappropriazione della sua 
capacità di esposizione alla vita, del piacere di perdere i confini 
prestabiliti tra sé e l’altro da sé.
L’uso dell’analisi da parte 
di chi soffre, è insieme più «spietato» e più distratto, più difficile 
da gestire per l’analista preso tra due richieste contraddittorie: 
reggere la pressione, senza respingere il desiderio che la sottende, e 
combattere la distrazione e il disimpegno.
La difficoltà cresciuta
 del lavoro con i pazienti, non si traduce in crisi degli psicoanalisti,
 almeno per coloro sufficientemente preparati a lavorare in condizioni 
avverse, dalle quali traggono maggiore ispirazione. La psicoanalisi 
stenta, invece, nell’evoluzione del suo paradigma. A un’espansione dei 
campi della sua applicazione e a un consolidamento e affinamento dei 
suoi strumenti teorico-clinici, corrisponde un rallentamento evidente 
del loro rinnovamento. Tuttavia, questo rallentamento non è un dato 
specifico del campo psicoanalitico: andrebbe ascritto a una crisi del 
campo della cura, e più in generale della scienza, che ha la sua causa 
in una involuzione del nostro modo di vedere, interpretare e 
rappresentare il mondo.
La produzione di una costante agitazione 
in superficie che contrasta lo sviluppo di un movimento di cambiamento 
in profondità, tiene il pensiero e i sentimenti nel campo del già saputo
 e sperimentato, lontano dall’incertezza e dal presentimento del non 
ancora pensato.
Ne consegue un dominio della tecnologia – la 
sempre più sofisticata applicazione di quello che si sa – su quello che 
si potrebbe sapere.
Einstein ha rivoluzionato la fisica usando 
carta e penna. Oggi costruiamo dispositivi cattura-particelle che 
allargano il campo della visibilità, ma smarriamo ciò che non si vede. 
Nel creare una prova di «verità», produciamo anche una cecità 
iper-vedente. La qualità, legata all’intuizione e alla potenzialità, è 
fagocitata dalla quantità, legata alla concretezza.
La 
psicoanalisi ha il suo bel da fare in una società in cui dietro l’idea 
che la qualità sia roba per palati fini – e non per una moltitudine di 
persone rozze – si produce, in realtà, solo quantità, «fine» o «rozza», 
per tutti.
 
