il manifesto 25.10.16
Una democrazia senza qualità
di Gaetano Azzariti
Le
recenti prese di posizione su oligarchia e democrazia hanno finito per
utilizzare categorie politiche fondamentali in modo eclettico,
mescolando teorie elitiste (da Gaetano Mosca alle diverse prospettive di
«elitismo democratico» descritte da Peter Bachrach) con definizioni
concettuali che hanno una loro storia distinta, collegata alla
classificazione delle forme di governo (da Platone a Leopoldo Elia o
Norberto Bobbio, per intenderci). Rimettere ordine al caos storico e
concettuale creato mi sembra pressoché impossibile. Mi limito allora ad
osservare che le difficoltà maggiori risiedono nella confusione prodotta
tra, da un lato, la forma di governo «oligarchica», che è evidentemente
ben distinta da quella «democratica», né può essere ad essa assimilata
se non si vuol far perdere il senso stesso della classificazione, e,
dall’altro, la nozione di classe dirigente», la
cui cronica mancanza in Italia è stata rilevata sin dagli illuminanti
studi di Antonio Gramsci. Ciò è dovuto alla debolezza storica delle
nostre élites.
Il ceto intellettuale del nostro paese ha
essenzialmente svolto una funzione «cosmopolita», che ha le sue radici
nella tradizione imperiale romana e che ha dominato sul piano culturale
l’intero Rinascimento, ma che, nel Settecento, ha impedito la
costruzione di una «borghesia nazionale». I nostri intellettuali –
scrive Gramsci – non si affermarono come gruppo nazionale, non
riuscirono a creare egemonia nelle culture europee, ma operarono come
singole personalità. Sul piano più strettamente politico il riflesso fu
la debolezza della classe dirigente del nostro paese e la mancanza di
una visione propriamente nazionale. Credo che, in tempi di apertura
degli spazi, sia importante anche rilevare che la mancanza di una
prospettiva nazionale è all’origine della difficoltà di collocare il
nostro paese entro il sempre più complesso panorama internazionale.
Diverso
il parere espresso di recente da Eugenio Scalfari, il quale ha
sostenuto, invece, che la presenza di una classe dirigente sia una
costante storica di ogni regime, di quelli democratici in specie.
L’equivoco di fondo risiede a mio parere nella sovrapposizione tra
«detentori del potere» ovvero «burocrazie dominanti» (quest’ultime, in
effetti, sono sempre esistite, quale che sia la forma che ha assunto la
struttura del dominio nelle diverse epoche storiche) e la più specifica
categoria di classe dirigente nazionale. Nel primo senso, in fondo,
anche il cosiddetto «giglio magico», che pure viene stigmatizzato,
rappresenta una burocrazia di potere. Se però si considera l’accezione
più particolare non può mancarsi di rilevare che, nella tradizione
italiana, è l’assenza costante di una vera ruling class che prevale. Un
vuoto spesso riempito dall’illusione di un leader, cui affidare le sorti
della politica e la direzione della nazione.
In un solo momento
della nostra storia patria abbiamo avuto una «classe dirigente
nazionale»: dopo la seconda guerra mondiale. Fu attraverso i partiti e i
loro ceti dirigenti che l’Italia fu ricostruita attorno ad una visione
di lungo periodo e in base ad una certa idea di società. In quel
contesto la Costituzione ha rappresentato per un trentennio il collante
identitario della nazione, posto al di sopra delle pur forti divisioni
politiche. La nostra classe dirigente nazionale si è rispecchiata nella
Costituzione. Oggi non più.
Può discutersi se anche nel periodo di
fondazione del regno si ebbe una classe dirigente nazionale: Cavour,
Vittorio Emanuele Orlando furono certamente statisti di valore, ma non
per questo necessariamente anche portatori di una unitaria visione
nazionale. Ci sono diverse e contrastanti valutazioni in proposito –
quella di Gramsci, ad esempio, è assai critica – legate al carattere di
conquista dell’unità nazionale e alla natura del Risorgimento. In
effetti, i valori di fondo (il «credo») e i maggiori esponenti del
Risorgimento (Mazzini, ma non solo) furono sconfitti politicamente, di
conseguenza non riuscirono a costituirsi in vera e propria classe
dirigente nazionale. In ogni caso – a tutto concedere – non andrei oltre
questi due momenti storici. Il che dovrebbe interrogarci sulla
necessità di ricostruire una classe dirigente nazionale degna, ma ciò
nulla ha a che fare con la classificazione delle forme di governo.
Personalmente
continuo a ritenere che l’oligarchia rappresenti una forma degenerata
della aristocrazia (il governo dei pochi), mentre i problemi della
democrazia sono legati all’oclocrazia (secondo il lessico giornalistico
attuale: al populismo) che può essere considerata una sua forma
degenerata. Se rimaniamo, dunque, entro la prospettiva «democratica» e
non invece «oligarchica», si tratta di valutare le sue trasformazioni
ovvero involuzioni. Detto in altri e più precisi termini, oggi ciò che
appare concretamente in gioco è la «qualità» della democrazia reale, non
le sue astratte «classificazioni». Così possiamo avere sistemi politici
tutti democratici ma tra loro assai diversi. Da un lato, quelli
qualificati come pluralisti, partecipativi e parlamentari. Strutture di
potere reale che favoriscono l’apertura e la contaminazione tra stato
apparato e società civile, cercando di definire stabili canali di
collegamento tra il popolo e le istituzioni (realmente) rappresentative,
magari utilizzando come strumenti i partiti politici, come è stato per
gran parte del Novecento. Dall’altro lato, assai distanti dalle prime,
si vanno a moltiplicare le democrazie chiuse. Quest’ultime puntano
essenzialmente a garantire la governabilità e vedono la partecipazione
solo come un intralcio, conservando la natura «democratica» nella sua
accezione moderna solo in forza della persistenza della regola aurea e
indispensabile (ma anche sufficiente?) della elezione popolare. La
sensazione è che il nostro paese si stia sempre più avvicinando al
secondo tipo di democrazia. È un bene? Questa credo sia la domanda di
fondo che dovremmo porci. Le teorie elitiste, in questo contesto,
rappresentano solo una variante.