domenica 23 ottobre 2016

LE SCELTE DAL SOLE E DAL MANIFESTO
DI DOMENICA 23 OTTOBRE


il manifesto 23.10.16
Bersani: il Pd di Renzi contro la sinistra rifondata
Referendum costituzionale. Il premier: rivogliono il governo, glielo abbiamo tolto perché non erano stati in grado di cambiare le cose. Sull'Italicum la minoranza avvisa Cuperlo: non c’è più tempo per modifiche, si cancella con il voto No. D'Alema: Votano Sì gli anziani, forse hanno più difficoltà a comprendere la riforma. Come fu con Brexit non si rendono conto che così si rovina la vita dei nipoti
di Daniela Preziosi

ROMA Il referendum costituzionale del 4 dicembre sarà – anche – il calcio d’avvio dello scontro congressuale del Pd e la prima pietra della ricostruzione della sinistra. Se vince il Sì, va detto, potrebbe essere anche l’ultima; ma se perde tutto tornerebbe in discussione, dal segretario alle regole dello statuto dem alla morte delle alleanze a sinistra. Ormai l’ex leader Bersani, scatenato a tutto No, non usa giri di parole. Nel Pd sarebbe meglio «far eleggere il segretario dagli iscritti e lasciare le primarie di coalizione per la scelta del candidato premier del centrosinistra», spiega a Repubblica. È la tesi già sconfitta allo scorso congresso, ma in politica chi perde può ritentare. Per questo il futuro scontro congressuale sarà «tra il partito di Renzi e una nuova prospettiva ulivista che rifondi la sinistra».
Ulivisti o altro, il premier sa che c’è un pezzo della politica italiana che si prepara alla ’Renxit’, ma da Palermo se la ride: «C’è una variegata alleanza di quelli che dicono No: D’Alema, Berlusconi, Monti, Fini, Dini, Cirino Pomicino», «il loro obiettivo è riprendersi il governo che gli abbiamo tolto perché non erano stati in grado di cambiare le cose. Noi vogliamo il futuro, non il passato». Ma futuro e passato sono concetti relativi a Palazzo Chigi: ieri il comitato del Sì ha rispolverato una vecchia intervista di Indro Montanelli a favore di un esecutivo più forte. La replica del No: «Si riconosce il vero obiettivo di questo referendum: cambiare la forma di governo, togliendo poteri al parlamento in favore dell’esecutivo e del suo capo. Evviva la sincerità».
Lo scontro è ruvido. Secondo Scenari politici (per Huffington Post) il No è avanti con il 52 per cento ma il Sì accorcia le distanze al 48 ed è in rimonta. Renzi è convinto che una mano a convincere gli indecisi potrebbe arrivare dall’accordo sull’Italicum fra maggioranza e minoranze Pd nella commissione dem istituita all’ultima direzione. Entro la manifestazione del Sì del 29 ottobre si capirà se la pax renziana sarà davvero firmata. Ma ieri Bersani lo ha di fatto escluso. E sulla Stampa Federico Fornaro, uno degli uomini che gli sono più vicini, ha rivelato che la disponibilità da parte della minoranza era solo tattica: «Il tempo è scaduto per farci cambiare posizione sul referendum», il tentativo di Cuperlo è «un contributo utile alla discussione e nulla più». Parole, quelle di Bersani e dei suoi, definite «incendiarie» dal presidente Orfini, che nella commissione è uno dei più determinati a portare a casa un accordo con Cuperlo. E poi magari godersi lo spettacolo della rottura fra la componente cuperliana – ridotta ormai ai minimi – e quella bersaniana. Anche Cuperlo non apprezza le parole dei suoi compagni: «Proviamoci», insiste, «da parte di tutti servono gli estintori perché alimentare l’incendio non aiuta». Se la commissione fallisse «salterebbe la stessa unità politica del Pd in vista del referendum costituzionale», avverte Giorgio Merlo. Ma Bersani ormai è scatenato per il No. E anche Massimo D’Alema manda a dire al suo ex pupillo che sul fronte della legge elettorale non c’è più niente da fare: «Ho grande rispetto e stima per Cuperlo, ma è evidente che nessuna commissione potrà mai cambiare l’Italicum prima del referendum, anche perché l’Italicum è oggetto del referendum. Quindi chi è contro l’Italicum deve votare No».
Quanto a D’Alema, ieri ha spiegato che il referendum italiano è paragonabile quello inglese sull’uscita dall’Europa, ma non nel senso sostenuto dal governo: «Renzi parla a nome di una gioventù che non lo segue. I giovani votano No. Votano Sì solo le persone molto anziane forse anche perché hanno maggiore difficoltà a comprendere questa riforma sbagliata», insomma proprio come fu con la vittoria di Brexit «gli anziani non si rendono conto che approvando la riforma renziana si rovina la vita dei nipoti». Bordate dal fronte del Sì: «Da una persona di 67 anni credo che sia un autogol dire una cosa del genere», attacca ancora Orfini, altro suo ex pupillo.
Ma a poco più di un mese dal voto ormai la battaglia è senza esclusione di colpi. Così nel corso di un comizio a Palermo ieri Renzi è inciampato in una battuta alla Salvini commentando la gigantografia delle facce del No che gli venivano proiettate alle spalle (D’Alema era la più visibile, al centro dello schermo): «Metti via», ha ordinato al tecnico delle immagini, «magari qualcuno ha mangiato».

il manifesto 23.10.16
Il peso di una scheda bianca
di Michele Prospero

A sinistra, dove la creatività è infinita, c’è chi ha lanciato l’idea assurda di un astensionismo critico o di una scheda bianca in un referendum costituzionale che non prevede alcun quorum. Ci sono però schede bianche e schede bianche. Quella annunciata da Fabrizio Barca somiglia molto all’esito di una argomentazione acrobatica: non partecipare alla battaglia per conservare le aspettative di una possibile ricomposizione. Quella evocata da Emanuele Macaluso è invece la conseguenza di un gesto di sofferta rottura che merita alcune considerazioni.
La riforma costituzionale è stata più volte raffigurata da Renzi e da Boschi come la riforma di Napolitano. Con il rifiuto di Macaluso di votarla nel referendum si lancia un segnale pesante di dissenso. Il testo, la cui paternità viene dal governo ricondotta strumentalmente al presidente emerito, non raccoglie neanche il consenso del politico a lui più vicino per una antica consuetudine ideale.
Del resto, dopo gli interventi nitidi di Alfredo Reichlin a supporto del no, le acque di ciò che rimaneva della tradizione comunista si sono agitate di molto. Che tutti gli intellettuali marxisti degli anni settanta (ad eccezione di Alberto Asor Rosa) siano schierati per il sì al quesito populista non stupisce. L’egemonia marxista poggiava su fragili basi di conformismo e gli intellettuali entrati nel Pci dopo il ’68 orientavano il loro pensiero secondo il vento passeggero delle mode. Già nei primi anni ottanta cominciò per molti il precipitoso addio alle armi.
La confluenza dei filosofi comunisti di allora nelle agguerrite schiere della de-formazione costituzionale di oggi ha anche degli appigli nella loro opera. Avevano qualche ragione Amato e Cafagna a prendere di petto le produzioni di De Giovanni e Vacca rimarcandone i tratti di un organicismo refrattario alle libertà negative, al pluralismo dei conflitti, alle garanzie. L’organicismo di una cattiva tradizione comunista può benissimo convivere con il volto arbitrario del renzismo e con le sue velleità di costituzionalizzare il partito della nazione con strappi alla carta ed elargizioni di bonus.
Che un acerrimo nemico della democrazia discutidora, come Massimo Cacciari, oggi non trovi nulla di strano nel votare a favore di una riforma che egli stesso giudica una immensa schifezza non desta scandalo: nella sterilità assiologica che condisce le varianti del nichilismo politico-giuridico ogni decidere qualcosa conta più della qualità della decisione.
Il conformismo dei chierici non è però una novità nella cultura italiana. Invece poco comprensibile era l’oscillazione dei politici comunisti eredi della grande lezione costituzionale di Togliatti e quindi poco inclini alle chiacchiere sulla democrazia decidente. Con Tortorella e Reichlin non c’è stata esitazione a prendere la giusta posizione in un conflitto che comunque muterà l’ossatura della repubblica. Ora anche Macaluso recupera un filo rosso della cultura costituzionale del Pci (ma anche dei partiti storici oggi riesumati da De Mita e da Formica) e nega il sostegno a un plebiscito manipolatorio e quindi profondamente illiberale.
Gli scritti incalzanti di Reichlin e i dubbi onesti di Macaluso su un plebiscito che sfigurerà la repubblica non possono non turbare la coscienza politica di Napolitano. Le categorie politiche e le preferenze nei modelli istituzionali risalgono a un medesimo ceppo, da cui non possono che scaturire anche gli stessi angoscianti interrogativi sul senso stesso di un referendum personalizzato come avventura irresponsabile entro una democrazia occidentale.
In un quadro di torsione plebiscitaria della consultazione le carezze di Renzi e Boschi sono urticanti per il capo dello Stato emerito perché cercano di tramutarlo maldestramente nel Coty italiano, con la differenza che mentre il presidente francese concedeva la carrozza del commissario al generale di Lilla a lui tocca consegnarla al caporale di Rignano.
Perciò Napolitano lamenta a ragione gli eccessi della personalizzazione dello scontro referendario. Ma proprio la personalizzazione della contesa è l’essenza della fuga plebiscitaria di un capo di governo che maledice le procedure e insegue l’unzione mistica del popolo. Alle prove di democrazia plebiscitaria un cittadino libero risponde necessariamente con il no, a prescindere dagli stessi contenuti tecnici della riforma. Che la scheda bianca di Macaluso prefiguri un’altra e clamorosa censura dell’avventurismo del mediocre potere toscano?

il manifesto 23.10.16
Lo sfratto? «La sinistra mistifica», ma è confermato
Archivio Ingrao. La minaccia è anche per lo storico spazio autogestito Casetta Rossa
di Giuliano Santoro

ROMA Abbiamo dato notizia delle lettere di sfratto inviate dall’amministrazione grillina del municipio VIII di Roma all’Archivio Ingrao, conservato in parte nei locali del municipio, e a Casetta Rossa, spazio autogestito. Palo Pace, presidente del municipio, ha affidato a Facebook la sua replica. Parla di una «ondata mistificatoria» per di più «proveniente dallo zoccolo duro della sinistra». Ma nei fatti conferma quanto abbiamo scritto.
«Al Centro per la Riforma dello Stato fu a suo tempo concesso ‘l’utilizzo temporaneo’ di un locale nella sede del Municipio Roma VIII per poter custodire il materiale del cosiddetto ’Archivio Ingrao’», spiega Pace. E prosegue: «Quello che doveva essere provvisorio, come sempre accade in Italia, è diventato stabile, e tutto il prezioso materiale storico-culturale dell’archivio è rimasto chiuso per anni in una stanza senza alcuna possibilità di poter essere fruito dall’utenza. Le esigenze logistiche del personale richiedono ulteriori spazi che il Municipio intende reperire nella propria sede».
Il succo è: le carte di Pietro Ingrao devono lasciare i locali della sede istituzionale che Pace presiede, senza che si provveda a indicare una destinazione alternativa. «L’immenso patrimonio letterario merita certamente una migliore allocazione», specifica Pace, senza tuttavia sentirsi in dovere di chiarire come pensi di risolvere questa faccenda. Eppure, diversi cittadini hanno scritto in calce al suo testo per chiedergli proprio questo: dove conta di ospitare l’archivio? Al momento in cui scriviamo Pace non ha risposto. Si è invece premurato di spiegare agli attivisti di Casetta Rossa che la loro esperienza pluriennale deve interrompersi a causa dell’«applicazione di norme di legge o obblighi contrattuali, non rispettati, di carattere amministrativo».
Oggi a Casetta Rossa ci si ritrova per tutto il giorno per protestare contro l’avviso di sfratto. Ci saranno molti cittadini, ma per Pace la politica «non c’entra nulla», ci sono automatismi burocratici che non possono essere intralciati. Se questa logica dovesse valere per il resto della capitale, dove la delibera 140 approvata dalla precedente amministrazione minaccia decine di spazi sociali, sarebbe uno stillicidio di sgomberi.

Il Sole 23.10.16
La manovra 2017
Le ragioni dell’Italia e i «paletti» di Bruxelles
di Alberto Quadrio Curzio

La settimana scorsa è stata incoraggiante per l’Italia in Europa. Dopo aver inviato alla Commissione europea il documento programmatico di bilancio (Dpb) per il 2017, sia il Presidente del consiglio Renzi che il ministro Padoan hanno spiegato come l’Esecutivo sia determinato ma dialogante. La tesi è che l’Italia chiede l’applicazione vera delle clausole sulle circostanze eccezionali (migranti e terremoto) e una lettura davvero poliennale della dinamica dei conti pubblici in relazione alla crescita, anche quella europea. Si evocano così due tipi di europeismo: quello del rigore tecnocratico di un continente declinante e quello di un’Europa forte che investendo aspira a un ruolo adeguato a cominciare dal Mediterraneo allargato. L’Italia, non da oggi, sta da quest’ultima parte perché consapevole che senza crescita c’è stagnazione che unita a immigrazione prefigura scenari nazionalisti.
La sostanza innovativa del Dpb per l'Italia. Questo è lo sfondo su cui valutare anche il Dpb 2017 che è cruciale per il Governo perché traccia ormai un sentiero che porta alla fine della legislatura nella primavera del 2018 quando andranno valutate le politiche economiche sul periodo (significativo) di 4 anni. In questa prospettiva due elementi sono per noi(economisti) importanti.
Il primo elemento ci viene da Padoan che in modo netto afferma: «La manovra non è uno spot elettorale: fa bene alla crescita del Paese nel solco della strategia del governo». Precisando poi che da quando è entrato in carica, l’Esecutivo ha puntato a ridurre le tasse, a sostenere l’occupazione, a spingere gli investimenti in innovazione quale vero motore della crescita.
Il secondo elemento è l’intonazione del Dpb secondo il quale, malgrado la ripresa Italiana sia in atto da tre anni, il tasso di crescita è più basso di quello necessario per riprendere il trend pre-crisi entro il 2025. Dunque consapevolezza anche perché nella crisi sono emerse tutte le debolezze (maggiori delle forze che pur ci sono) del nostro contradditorio sviluppo.
Questi sono gli sfondi del disegno di legge di bilancio 2017 (e per il triennio 2017-19) che poggia su due pilastri: investimenti-crescita; equità-socialità (pure cruciale in un Paese civile). Il pilastro investimenti-crescita è imperniato sul programma di Industria 4.0, messo a punto dal ministro Calenda, che supera la logica dirigista delle politiche industriali per passare a quella innovativa spingendo le imprese ad aumentare la competitività e la produttività. Viene così rinnovato (con un approccio più selettivo) il “super-ammortamento” sull’acquisto di beni strumentali e viene introdotto “l’iperammortamento” sull’acquisto di beni strumentali e immateriali (software) funzionali alla trasformazione tecnologica e digitale dell’impresa. Si rafforzano i crediti d’imposta su investimenti in ricerca e sviluppo e le misure di sostegno alle start-up innovative. Viene aumentato il Fondo di garanzia per le Pmi si proroga della “Nuova Sabatini”. Infine si rafforza la detassazione dei premi di produttività. E si disattiva la clausola di salvaguardia prevista da precedenti leggi di stabilità con aumenti pesanti di Iva e accise. Insomma la fiscalità per la crescita c’è nella importante collaborazione tra Mef e Mise.
Queste misure diventeranno concretezza se l’applicazione delle norme sarà agevole e se le imprese sapranno utilizzarle magari con l’appoggio delle Associazioni imprenditoriali.
Ciò dovrebbe portare la crescita del Pil del 2017 dallo 0,6% tendenziale all’1% e all’1,2% nel 2018. Non è molto ma il Dpb avverte però che questa è una stima prudenziale perché l’aumento del disavanzo prefigurato al 2,3% non è stato tutto incorporato nei suoi effetti sulla crescita (e perché giustamente la stima non tiene conto dell’utilizzo di margini di bilancio dovuti ad eventi eccezionali quali i movimenti migratori e la ricostruzione post-terremoto).
I rapporti con l’Europa
Anche qui partiamo da una affermazione di Padoan: «I numeri che l’Italia ha presentato andranno valutati, ma a nostro avviso siamo in regola». Difficile dire che significhi essere in regola con la Commissione europea il cui ruolo, pur migliorato con Juncker, è troppo tecnico rispetto a quello politico del Consiglio europeo che stenta a capire come la bassa crescita ci destina ad essere un “vecchio continente”.
Rimanendo al caso italiano vediamo due vigilanze della Commissione.
La prima riguarda le entrate a copertura parziale del deficit. Il Governo nel Dpb punta a un deficit sul Pil al 2,3% rispetto a precedenti programmi tra l’1,6% e l’1,8%.Per questo, il Dpb prevede misure pari ad almeno lo 0,7% con tagli di spesa ed entrate varie sia fiscali che extra, più o meno una tantum. Non entriamo in questo capitolo che appare il più problematico e su cui la vigilanza della Commissione è benvenuta anche per dare forza alla politica interna.
La seconda vigilanza riguarda la nostra situazione strutturale valutata recentemente dalla Commissione. È vero che nel Dpb 2017 il deficit strutturale aumenta un po’ rispetto a precedenti programmi e così pure il livello del debito pubblico sul Pil. Ma il Dpb punta ad aumentare la competitività e la produttività che sono due richieste costanti della Commissione. Che anche di recente da un giudizio misto dei nostri progressi valutando bene quelli nel settore bancario, nel mercato del lavoro e nella scuola e considerando deboli quelli sulle infrastrutture strategiche, sulla gestione dei fondi della Ue, sul rafforzamento del quadro istituzionale, sulla modernizzazione della pubblica amministrazione e della giustizia civile. Progressi ancor più tenui si vedono sulla revisione della spesa pubblica, le privatizzazioni e la riforma fiscale.
Un confronto razionale
Renzi e Padoan hanno detto che dialogheranno con la commissione sul Dpb 2017. Speriamo allora che il confronto sia anche sulla qualità (non sempre chiara) delle nostre riforme tenendo conto della dimensione della crisi italiana e dell’impegno per uscirne. Ma anche dell’enorme sforzo umanitario che l’Italia sta facendo verso i migranti. Se la tecnica è incline ad usare il metro dei decimali, la politica dovrebbe invece privilegiare quello della coesione evitando che la costruzione di “muri” tra Paesi europei prefiguri un ritorno ai nazionalismi.

Il Sole 23.10.16
La mappa del voto negli anni della crisi
Euroscettici e populisti: così cambia l’Europa
di Luca Ricolfi

Anche se in pochi se ne erano accorti, le forze di stampo euroscettico o populista (ESP, d’ora in poi) erano già molto forti in Europa all’inizio del XXI secolo. Dopo la fase acuta della crisi, coincisa con un’intera legislatura del Parlamento europeo (2009-2014), il loro peso è quasi raddoppiato: oggi un parlamentare europeo su tre afferisce a forze politiche di matrice euroscettica o populista. Difficile non prendere sul serio un fenomeno che ha cambiato e sta cambiando la geografia politica dell’Europa.
Sul giornale di oggi pubblichiamo la mappa completa, elaborata dalla Fondazione David Hume, delle forze ESP nel Parlamento europeo (per i dettagli vedi l’intero Dossier, sul sito del Sole 24 Ore).
Prima di analizzarla, tuttavia, vale la pena esplicitare alcune scelte definitorie. Per forze ESP intendiamo qualsiasi partito, forza politica o movimento che abbia ottenuto almeno un seggio in almeno una delle due ultime elezioni (2009 e 2014) del Parlamento europeo, e presenti tratti populisti o euroscettici. L’attribuzione a una forza politica della qualifica “populista” segue le convenzioni prevalenti fra i politologi, mentre la patente di “euroscettica” è attribuita sia ai partiti euroscettici veri e propri (spesso orientati a destra) sia ai partiti euro-critici (spesso orientati a sinistra). È il caso di notare, infine, che i partiti ESP possono anche essere di governo (come accade ad esempio in Grecia, Finlandia, Ungheria, Polonia), e che, per quanto spesso sovrapposti, populismo ed euroscetticismo restano due tratti distinti: esistono anche partiti euroscettici ma non populisti (ad esempio in Spagna e in Finlandia), come esistono partiti populisti ma non euroscettici (ad esempio in Irlanda, Bulgaria e Repubblica Ceca).
Uno sguardo al grafico sopra permette di notare almeno due fenomeni. Il primo è l’estrema differenziazione negli insediamenti delle forze ESP. Ci sono Paesi in cui la loro presenza si avvicina o supera il 50% dei consensi elettorali: è il caso di Ungheria, Irlanda, Grecia, Bulgaria. Ma ci sono anche Paesi in cui esse sono del tutto assenti (Lussemburgo, Malta, Slovenia) o hanno un peso estremamente ridotto (Belgio, Romania). Quanto all’Italia il peso delle forze ESP è analogo a quello medio nell’Unione europea (30-35%).
Il secondo fenomeno che salta agli occhi è la sostanziale assenza di un chiaro gradiente geografico: non si può dire che le forze ESP siano tipicamente presenti nel Nord o nel Sud dell’Europa, o fra i Paesi dell’Est piuttosto che dell’Ovest. È vero semmai l’opposto: ci sono Paesi geograficamente (e spesso anche culturalmente) vicini che hanno livelli di populismo diversissimi: le forze ESP sono molto forti in Olanda, ma debolissime in Belgio; sono forti in Spagna ma deboli in Portogallo; sono deboli in Austria ma fortissime nella vicina Ungheria; sono deboli in Germania ma forti sia nei suoi vicini occidentali (Francia, Olanda) sia in quelli orientali (Polonia e Repubblica Ceca), sia nel vicino settentrionale (Danimarca). Se proprio vogliamo individuare un gradiente geografico, quel che possiamo notare è che il grosso dell’Europa continentale è populista, a Est come a Ovest, ma che esiste una striscia continua relativamente immune (sotto il 20%) che si estende dalla Germania all’Austria e si prolunga in Slovacchia.
Questo apparente disordine geografico, tuttavia, scompare se anziché guardare ai livelli attuali (elezioni 2014) di consenso alle forze ESP cerchiamo di capire in quali Paesi esse sono avanzate di più negli anni della crisi, ossia fra il 2009 e il 2014. Ebbene, la cartina “dinamica” delle forze populiste o euroscettiche (vedi mappa in alto) presenta un aspetto molto più semplice: la tendenza generale, nei Paesi dell’Unione Europea è stata al rafforzamento delle forze populiste, ma esiste una fascia ben precisa di Paesi (in blu nella mappa) in cui la tendenza è stata, all’opposto, quella dell’indebolimento.
Questa fascia di Paesi a populismo decrescente è costituita da sei Paesi centro-orientali, tutti con almeno un confine (alcuni con 2 o 3 confini) con Paesi del medesimo gruppo: Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria. Qui, almeno fra il 2009 e il 2014, le forze ESP erano in arretramento, in netta controtendenza con la maggior parte degli altri Paesi europei.
Resta da vedere, naturalmente, quali siano i fattori che, durante la lunga crisi iniziata nel 2007-2008, abbiano alimentato il successo delle forze populiste. Al riguardo, come noto, esistono due chiavi di lettura principali, fortemente inquinate dalle convinzioni politiche di ciascuno. A destra, l’avanzata populista tende ad essere attribuita alla “invasione” degli immigrati, a sinistra alle politiche di austerità. Ma su questo contiamo di tornare fra un paio di settimane, con un dossier che cercherà di individuare le cause dell’avanzata populista in Europa con gli strumenti dell’analisi dei dati, piuttosto che con le lenti dell’ideologia.

Il Sole Domenica 23.10.16
Storia della sinistra
La «Libertà» di essere socialista
di Raffaele Liucci

Chi si ricorda più del glorioso socialismo italiano? Represso dal fascismo, poi emarginato nel secondo Dopoguerra dall’egemonia comunista, infine vittima di un cupio dissolvi fatto di consunte sciantose, conti «protezione» a Lugano e breviari su «dove andiamo a ballare questa sera?». Eppure, i tanti mariuoli responsabili di questo vespro non dovrebbero far obnubilare un dato storico inequivocabile: l’indubbia superiorità del socialismo su ogni tipo di comunismo, anche quello incarnato dal «partito nuovo» di Palmiro Togliatti che, pur meno lugubre del PCUS, non riuscirà mai a diventare la forza socialdemocratica di cui ancora oggi soffriamo la mancanza.
Giunge a proposito il bel libro di Nicola Del Corno, docente alla Statale di Milano e vicedirettore della rinata «Rivista storica del socialismo». Il suo studio è, innanzitutto, un esauriente profilo di «Libertà», il quindicinale dei giovani socialisti milanesi, uscito dal gennaio 1924 al febbraio dell’anno successivo. Ma quel foglio, dal ricco parterre di collaboratori e pubblicato nell’ex «città rossa» per eccellenza, letto con occhi odierni ci appare anche un amaro compendio delle occasioni perdute dalla migliore sinistra italiana.
Le pagine di «Libertà» restituiscono infatti uno spaccato del socialismo riformista turatiano nell’annus horribilis 1924, sconfitto non solo dal fascismo, ma anche dai compagni massimalisti (impadronitisi del partito nell’ottobre 1922, due settimane prima della marcia su Roma). C’è il volenteroso direttore, Antonio Greppi, futuro sindaco nella Milano libera dal nazifascismo (sarà lui a riavviare la Scala, inaugurare il Piccolo Teatro, rimettere in moto la Pinacoteca di Brera e Palazzo Reale). C’è Giacomo Matteotti, che a febbraio, in un clima sempre più cupo, invierà una missiva d’incoraggiamento ai redattori (poi pubblicata in prima pagina, dopo il suo brutale assassinio perpetrato a giugno). C’è il filosofo del diritto Alessandro Levi, il quale indirizzò ben nove «lettere ai giovani», indagando sullo scarso appeal del socialismo gradualista presso i ventenni reduci dalla guerra, «assetati di assoluto» e perciò ben disposti verso il piffero magico di Benito. Ne seguirà un interessante dibattito, con Carlo Rosselli, Enrico Sereni e Ugo Guido Mondolfo, quasi tutti concordi sul fatto che la Grande Guerra avesse infranto il «roseo mito del progresso» cui sembrava incamminata l’umanità dalla fine dell’Ottocento.
E ancora. Rodolfo Mondolfo, Giuseppe Zibordi, Piero Gobetti, Luigi Salvatorelli, Max Ascoli e Lelio Basso s’interrogano sull’attualità del marxismo, con un intervento dell’anarchico Camillo Berneri, secondo il quale «il miglior modo per essere marxisti» è quello di «non seguire Marx». Arturo Labriola invita a coltivare un sano patriottismo antinazionalista («chi lotta per la Libertà, lotta per la Patria»). Carlo Rosselli s’impegna in una lunga disamina delle differenze fra il Labour Party e i partiti socialisti europei. Ugo Guido Mondolfo sferra un aspro attacco alla riforma Gentile e alla politica scolastica littoria, da lui reputata prona al Vaticano. Giulia Filippetti tuona contro «il quasi assoluto assenteismo delle donne dalla vita pubblica». Nino Levi firma un ritratto di Jean Jaurès, il socialista francese ucciso da un fanatico all’alba del primo conflitto mondiale, fosco presagio della nuova temperie. Jaurès è uno dei due eroi celebrati da «Libertà». L’altro è Matteotti, oggetto di un intero fascicolo dopo il suo martirio.
Sia chiaro: non tutti i pezzi ospitati dalla rivista milanese sono da incorniciare. Per esempio, i peana di Gobetti a Marx e alla «rivoluzione proletaria» stonano con il suo asserito liberalismo. Del pari, i vaticini anonimi sulla breve durata del regime fascista all’indomani dell’omicidio Matteotti non brillano per chiaroveggenza. E tuttavia, «Libertà» coglie lucidamente, quasi in tempo reale, i motivi della disfatta subita dall’intera sinistra.
Primo, lo scisma fra socialismo e democrazia. Soltanto grazie al parlamento, scrive Piero Della Giusta, l’uomo da «suddito» s’era trasformato in «soggetto che partecipa coscientemente alla vita dello Stato». Invece, l’iconoclastia antiparlamentare albergante anche nel movimento operaio ha portato acqua al mulino della reazione.
Secondo, la complicità involontaria dei comunisti con il fascismo. Lo aveva scritto Matteotti in una lettera a Turati, poco prima del rapimento. E lo ribadiranno i virgulti di «Libertà», criticando le «oligarchie rivoluzionarie», colpevoli di spingere i borghesi impauriti nelle braccia di Mussolini, visto «come un’assicurazione sugli averi». Lo slittamento a destra dei ceti medi aveva intensificato il «sinistro bagliore» dei pugnali fascisti.
Terzo, la nascita dell’Unione Sovietica, «vero manuale della sconfitta delle aspirazioni del proletariato». Tanto da giustificare, su «Libertà», i frequenti paralleli fra l’Italia fascista e l’Urss, unite dal disprezzo per la democrazia e dal terrorismo di Stato. Particolarmente suggestive anche le corrispondenze del socialista rivoluzionario russo Ewghenj Schreider, il quale paragona la Mosca di quel periodo agli anni più intolleranti della Roma papalina: pure «da noi esistono oggi l’index librorum prohibitorum, la censura che si estende a ogni manifestazione di pensiero, le persecuzioni e i massacri degli eretici-socialisti». Con buona pace di quanto scriveranno nei decenni successivi i viaggiatori occidentali in Urss, abbagliati dal suo rovinoso mito.
Del senno del poi son piene le fosse. Però, se nel primo Dopoguerra la sinistra tonitruante avesse meglio ponderato questi tre snodi, forse avrebbe coltivato meno rimpianti durante la lunga notte del fascismo.
Nicola Del Corno, Giovani, socialisti, democratici. La breve esperienza
di «Libertà» (1924-1925) , Biblion, Milano, pagg. 196, € 20

Il Sole Domenica 23.10.16
1956, il sogno ungherese
Sessant’anni fa la rivoluzione: Budapest ricorda i giovani combattenti per la libertà, meno le figure politiche
di Eliana Di Caro

A Budapest tutti conoscono Andrássy 60. Una strada dove si è consumato a più riprese l’annientamento dell’uomo: qui infatti venivano incarcerati, picchiati e torturati i prigionieri del nazismo prima, dello stalinismo e della rivoluzione del ’56 dopo.
Oggi si chiama Casa del Terrore, è un museo che vuole far conoscere quelle vicende e preservarne la memoria. Qui e in molti altri luoghi del Paese si commemora il 60° anniversario della rivoluzione, che cominciò oggi e diede la speranza della democrazia al popolo di Ungheria. Un sogno di due settimane, infranto dai carri armati sovietici il 4 novembre, dalla cancellazione del governo di Imre Nagy, da arresti, processi farsa, impiccagioni, massacri di folle radunate in piazza (a Tatabánya, Miskolc, Eger, Sálgótarján, quest’ultimo il più crudele con 131 morti e 150 feriti). Filmati, ricostruzioni, interviste ai sopravvissuti, fascicoli dei processi politici, fotografie sono potenti ma non quanto le crude, minuscole celle nelle cantine del palazzo neorinascimentale, dove venivano richiusi i prigionieri. Senza finestre, una con il pavimento e le pareti imbottite per evitare al martoriato di turno di peggiorare la situazione (erano i carnefici a decidere quando si moriva), una stretta e lunga solo lo spazio per stare fisicamente in piedi; una perennemente bagnata in cui il detenuto era obbligato a stare seduto nell’acqua; un’altra con il soffitto basso: impossibile stare eretti. È forte il contrasto, andando poco più avanti, con una parete di cartoline colorate e fitte di parole: quelle degli esuli che lasciarono l’Ungheria in cerca di un futuro meno incerto e scrivevano ai propri cari rimasti in patria.
Da tempo Budapest preparava la commemorazione di oggi, anzi si parla di “anno commemorativo” cui il Governo di Viktor Orbán ha destinato 13 miliardi di fiorini (oltre 42 milioni di euro) per organizzare manifestazioni ed eventi coinvolgendo anche i cittadini ungheresi sparsi nel mondo, invitando per il 23 ottobre capi di Stato, lanciando iniziative per i più giovani. In giro per la città s’incontrano nelle stazioni, nella metropolitana, nelle piazze, nei mercati dei grandi poster con i volti dei ragazzi e dei combattenti di quei giorni, un’arma in mano, e sopra la stessa scritta: «W la libertà dell’Ungheria. W la patria». Un orgoglio e un senso d’identità che hanno certamente radici più lontane ma che nel ’56 si rafforzano moltissimo.
Nelle parole e nei sorrisi cui a tratti si lascia andare Maria Wittner, 80 anni il prossimo giugno, si capisce bene il perché. Lei, origini poverissime, cresciuta in orfanotrofio, un figlio al quale fu costretta a riservare lo stesso destino perché non aveva i mezzi per crescerlo, si buttò con tutta l’energia dei suoi 19 anni nella rivolta: «Si sentiva che nell’aria c’era qualcosa, la città era in subbuglio, dei ragazzi con l’altoparlante annunciavano i 16 punti (le rivendicazioni di democrazia e libertà, ndr) e io mi unii a loro davanti alla sede del giornale “Il popolo libero”: era bello essere in quella folla dopo tanto isolamento», racconta nella sua casa di Dunakeszi Gyártelep, una manciata di chilometri da Budapest. Quando le si chiede perché parla di isolamento risponde citando il “complesso del campanello”: «Era tale la paura quotidiana di essere arrestati che si temeva ogni qual volta suonava il campanello di casa, pensando fosse il proprio turno. Ognuno aveva paura dell’altro, si viveva chiusi in se stessi. Il 23 ottobre scattò una molla che cambiò tutto».
La notizia che qualcuno era stato ucciso davanti alla sede della Radio nazionale, in via Bródy Sándor, segna il salto di qualità e quella che inizialmente era nata come una manifestazione di solidarietà agli studenti polacchi diventa una vera e propria insurrezione: «Ci riversammo lì, la battaglia durò tutta la notte, io caricavo le armi per due ragazzi che sparavano dal tetto. Arrivavano le ambulanze ma i medici con il camice bianco sparavano sulla folla: sotto si riconosceva la divisa militare della polizia segreta. Alla fine avemmo la meglio, e quando entrammo la mattina nella sede della radio trovammo un arsenale cui attingemmo a piene mani. Sapevamo come usare mitra e pistole perché a scuola era obbligatoria la preparazione all’uso delle armi. Rimanemmo lì per seguire il discorso di Imre Nagy il quale indisse il coprifuoco. Ma non era possibile, la storia doveva fare il suo corso: nel frattempo, nel quartiere di Kalvin, vidi la prima molotov della mia vita far esplodere un carrarmato sovietico».
Wittner racconta con impeto, come se gli eventi fossero accaduti un mese fa, con gli occhi azzurri che si accendono di tanto in tanto nel rievocare «che eravamo uniti, i poliziotti a un certo punto si schierarono dalla nostra parte, dalle campagne arrivavano cibo e denaro e quando s’insediò Nagy al Governo il 28 ottobre ci raccogliemmo intorno alle vittime, distese sulla terra battuta nel parco giochi, e celebrammo i loro funerali». La gioia della democrazia dura un lampo, «il 4 novembre si sentono le cannonate ma non si capisce da dove arrivino,sono telecomandate. Mi precipito con Katalyn Sticker in via Vajdahunyad al 35, alla sede dell’esercito, e lo scoppio di un ordigno mi ferisce alla schiena. Mi portano in ospedale, la mia partecipazione finisce qui». Nulla possono i rivoluzionari contro la potenza di fuoco dei sovietici. Sul campo resteranno in totale 2.500 vittime (duemila solo nella capitale) e circa 20mila feriti. Arrivano gli anni del carcere, della ritorsione brutale del regime di Kádár, Maria Wittner viene condannata alla pena capitale e rimane nel braccio della morte per otto mesi. «I momenti peggiori erano quando venivano a prendere gli altri: la mia amica Katalyn fu impiccata perché era cinque anni più grande di me. Urlai e picchiai la porta disperata. Poi la mia condanna fu trasformata in ergastolo e fui trasferita nel carcere di massima sicurezza femminile di Szlonok».
L’amnistia di cui beneficiò nel ’70 (fu una delle ultime a tornare in libertà) apre la porta a un duro reinserimento per una vita che non aveva potuto vivere, prima come operaia tessile, poi come donna delle pulizie in una scuola dove le fecero difficoltà perché bisognava esibire la fedina penale: «Se penso che oggi vado a raccontare tutto questo in tante scuole...Buffa la vita, no?», sorride.
Wittner non è stata l’unica donna di grande coraggio e tenacia durante la rivoluzione. Ne parlano nell’istituto del ’56 Kata Somlai e Réka Sárközy, due storiche che hanno studiato a lungo quella fase e continuano a raccogliere e produrre materiali con gli altri colleghi (130 i libri pubblicati dall’ente, 2mila papers, 12 documentari e un enorme archivio fotografico). «Non si può non menzionare Anna Kéthly - dice Kata - già parlamentare dal 1922 al ’48, poi in prigione sino al ’53. Nagy la arruolò nel suo Governo, e quando lei andò a Vienna al Congresso dell’Internazionale socialista la bloccarono alla frontiera, rimase in Occidente e fu la voce della rivoluzione rappresentando il Paese nei consessi internazionali. Al di là di queste figure carismatiche, le donne nella rivolta avevano un ruolo importante: c’era chi partecipava attivamente alla battaglia, chi era in fila per il pane, preparava volantini o urlava alle manifestazioni». Né di Kéthly né di Nagy o altri politici e intellettuali vi è traccia nelle strade di Budapest tra i ritratti dei protagonisti di quei giorni. «È come se si fosse svuotata la rivoluzione del suo contenuto che è troppo complesso», osserva Somlai. «Ci sono solo figure di giovani combattenti, si enfatizza la conquista dell’indipendenza ma non si sottolineano gli ideali che nutrivano le ideologie di quegli anni».
Nel suo studio Réka Sárközy fa scorrere sullo schermo del computer le immagini del 16 giugno 1989, quando a Budapest ci fu la solenne ritumulazione di Nagy: la sua salma era stata dissotterrata dalla fossa 301 (dove era stato gettato dopo l’impiccagione il 16 giugno del ’58) e si celebrarono funerali commoventi. «Il giorno dopo - racconta la storica - nacque l’Istituto del ’56 per ricostruire i fatti e tutelare una memoria soffocata dal regime: a scuola non si poteva neanche pronunciare la parola rivoluzione, che ovviamente non compariva in alcun manuale di storia».
Sárközy insegna storia contemporanea e storia dell’arte cinematografica all’Università cattolica Pázmány Péter. Con una punta di amarezza racconta di aver «chiesto ai miei studenti di fare dei filmati sulle commemorazioni: si sono rifiutati perché lo considerano un evento politicizzato e non un fatto storico, quindi se ne tengono lontani. La gente trova eccessivo lo stanziamento di 13 miliardi di fiorini, si sente un po’ offesa: questo non vuol dire che non ne vengano fuori aspetti positivi». Si vedrà oggi e nei giorni prossimi come la popolazione reagirà al vasto programma commemorativo organizzato dal Governo. Il vicepresidente del Parlamento Sándor Lezsák, 67 anni il 30 ottobre, una carriera politica cominciata nell’89 (era tra i fondatori di Forum democratico, il primo partito nato all’indomani della caduta del regime), ora nel Fidesz di Orbán, spiega che «in oltre 2.700 paesi ungheresi ci saranno celebrazioni coordinate dalla commissione dedicata all’anno commemorativo. Ogni paese poteva proporre un suo progetto, da una mostra all’inaugurazione di una statua, da una rassegna cinematografica a un concerto, fino a iniziative specifiche per i bambini:forse sarà il primo anniversario che si festeggia dal basso. Dieci anni fa ci fu solo grande confusione, accanimento sui manifestanti e una grande vergogna», non rinuncia a dire rievocando il clima teso e le cariche della polizia in occasione del cinquantenario. Non teme disordini per le tre contro-manifestazioni annunciate dall’opposizione? «È un fatto naturale, con un’opposizione così frammentata, che ci siano più espressioni. Ma è la democrazia».

il manifesto 23.10.16
La «mia» Ungheria
Praga, ottobre 1956, manifestanti per la strada
di Luciana Castellina

Il 23 ottobre 1956 ero a Bruxelles, membro di un ristretto drappello incaricato dalla Federazione Mondiale della Gioventù di operare un difficile tentativo: consentire all’internazionale dei giovani comunisti (e di una piccola parte di socialisti di sinistra), di rimettere piede in Occidente. La Fmgd, che aveva avuto la sua sede centrale a Parigi, ne era stata cacciata quando la Francia era entrata nella Nato. Da allora aveva dovuto emigrare a Budapest e le era stato proibito di indire una qualsivoglia iniziativa in un paese membro dell’Alleanza Atlantica. Era stato solo quando un socialista, Henri Spaak, era stato eletto primo ministro in Belgio, che uno spiraglio si era dischiuso: il governo di Bruxelles aveva acconsentito a ospitare una conferenza di ragazze promossa dalla Fmgd. («Di ragazze», perché sembrava più innoqua. Io avrei dovuto tenere il discorso di apertura, e mi era stato gentilmente suggerito da Budapest di cominciare dicendo:«Questa assemblea gioiosa e coquette». Sempre per non spaventare la Nato. Quel 23 ottobre ero per l’appunto impegnata a respingere il suggerimento; e a difendermi dalla asprissima critica delle mie tre colleghe, tutte Pcf, perché stavo leggendo l’appena uscito libro di Simone de Beauvoir Il secondo sesso.)
Nella notte – eravamo alloggiate in uno dei migliori alberghi della città (sempre per far buona figura con la Nato) – il sonno fu interrotto da concitate telefonate da Budapest: dagli uffici centrali della Federazione ci chiamavano in preda al panico per raccontarci cosa stava accadendo.
Scoprimmo il mattino seguente che l’accaduto era grosso e il suo sbocco imprevedibile. Bruxelles fu attraversata subito da manifestazioni di protesta antisovietiche, la sede del partito comunista belga assaltata, i nostri interlocutori belgi, fra cui, il più importante, il consigliere (molto di sinistra) della regina madre (piuttosto di sinistra anche lei), introvabili perché imbarazzati. Le notti successive le telefonate da Budapest si fecero sempre più drammatiche, noi sempre più confuse.
Alla nostra incertezza fu posto rapidamente termine da una telefonata: uno sconosciuto, che si dichiarava amico nostro, ci comunicava di doverci dire cose molto importanti e però riservate. Ci dava appuntamento alle 11 di sera davanti al Café de l’Horologe. Spaventate ci precipitammo al Pc belga per chiedere consiglio, timorose di cadere in una provocazione. Oltretutto in quel luogo le donne passeggiavano per altre ragioni. I compagni ci diedero uno chaperon, il presidente della locale Associazione dei Pionieri, Jean de la Vacherie. Che ci precedette sedendo a un tavolino sbirciando da dietro un giornale come i detectives.
Lo sconosciuto giunse puntuale e in poche parole ci disse di aver avuto visione di carte che ci riguardavano: un ordine di espulsione dal paese prima delle 8 del mattino seguente. Per evitare lo spiacevole affronto ci consigliava di lasciare il paese entro la nottata. A tutt’oggi non so se era un compagno, o, invece, un emissario di Spaak che ci voleva al più presto fuori dai piedi ma preferiva non compiere quel gesto.
Facemmo con ansia i bagagli mentre da una Budapest sempre più in preda all’angoscia ci venivano impartiti gli ultimi ordini: io dovevo andare all’aereoporto e raggiungere Helsnki, capitale di un paese neutrale, per vedere se lì fossero stati disposti a ospitare la famosa Conferenza gioiosa delle ragazze che il Belgio non voleva più. Non avevo mai preso un aereo, non sapevo cosa accadeva realmente, arrivai come un marziano in Finlandia, immediatamente ricevuta dalla segretaria dei locali giovani comunisti (anni dopo diventata persino ministro) che mi disse, a nome del suo saggio partito, se eravamo scemi a insistere. Mi imbarcarono per Parigi (allora il Pcf era considerato la sede occidentale del Cominform), non prima, tuttavia, di avermi introdotto, la sera, a una pratica a me allora totalmente sconosciuta: la sauna, preceduta da frustate di betulla.
A Parigi arrivai il 29 ottobre ma su quanto stava accadendo in Ungheria mi dettero laconiche e tranquillizzanti informazioni. L’opposto di quanto raccontavano i giornali «borghesi» di cui diffido tutt’ora, ma certo meno di allora. Decisi di prendere il treno per Roma la sera stessa. Alla mattutina fermata di Milano mi precipitai a comprare l’Unità. Di cui finalmente mi potevo fidare. L’inviato Alberto Iacoviello raccontava una storia del tutto diversa da quella de l’Humanité.
Non ero totalmente digiuna su quale era la situazione nei paesi dell’est. Già allora lavoravo a Nuova Generazione, il settimanale della Fgci e nei mesi precedenti avevamo dato largo spazio alle rivolte polacche, Poznam e poi Varsavia. Ma lì si era giunti a un esito fantastico: Gomulka, a lungo in prigione perché dissidente, era stato nominato nientemeno che segretario del partito; e il generale sovietico Rokassovskj, e però comandante dell’Esercito polacco, era stato finalmente rimandato a casa. In Ungheria non sembrava andare affatto così.
Quando arrivai a Roma fui investita da una nuova drammatica notizia: nella notte, alle ore 2,30, le truppe di Francia, Gran Bretagna e Israele avevano attaccato l’Egitto, che aveva osato nazionalizzare il canale di Suez.
Alle 4, con un comunicato ufficiale, Mosca, col sostegno della Cina e persino degli jugoslavi, aveva annunciato l’intervento delle proprie truppe di stanza in Ungheria. Il precario equilibrio che fino ad allora aveva evitato la guerra stava saltando.
Anche nella Fgci ci fu qualche rottura. Come nel Partito.
Io non partecipai alla protesta, pur con tutte le riserve sui regimi dell’est e sui giudizi minimizzanti che, pur senza censurare le informazioni, furono emessi dal Pci. Non lo feci non per non rompere la disciplina (che poi ruppi per Praga ), ma perché c’era appena stato il XX congresso e l’Urss con Kruscev sembrava stesse cambiando; quanto accaduto a Budapest si presentava come un colpo di coda della vecchia guardia stalinista (e in gran parte lo fu, stando alle ricostruzioni degli stessi storici americani);un mese dopo il Pci operò una svolta decisiva con il suo VIII congresso. Il nostro campo – insomma – poteva ancora nutrire speranze, la minaccia principale restava l’imperialismo occidentale.

il manifesto 23.10.16
«Oggi negano lo spirito del ’56»
Intervista allo storico László Eörsi . L’Ungheria ricorda la rivolta del 23 ottobre 1956. «Il partito del premier Orbán e gli xenofobi di Jobbik che si dicono eredi di quel movimento, ne distorcono l’essenza, azzerano il ruolo dei comunisti d’opposizione e di Imre Nagy ed esaltano i rivoltosi, ma il 90% di loro aveva ideali di sinistra»
di Massimo Congiu
BUDAPEST Figlio di István Eörsi, scrittore, poeta e traduttore, condannato a otto anni per aver sostenuto la sollevazione del 1956 come giornalista, e poi amnistiato, László Eörsi è storico all’Istituto per gli studi sul 1956 di Budapest. A questo argomento ha dedicato numerose opere. È tra gli intellettuali attivi nella critica al governo Orbán. Lo abbiamo incontrato per rivedere i fatti del 1956 ungherese a distanza di sessant’anni esatti e parlare con lui del loro significato nell’Ungheria di oggi.
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Sembra che in un certo qual modo la memoria dei fatti del 1956 divida ancora il paese dal punto di vista politico, in quanto ciascuno dei principali partiti sembra dirsi vero erede dei protagonisti dell’insurrezione.
Diciamo che i socialisti si definiscono più precisamente eredi di Imre Nagy, per il resto è tipico loro, tacere in merito a quanto accaduto nel 1956. Il Fidesz e il partito Jobbik (l’estrema destra xenofoba ndr) convergono nel modo di sentirsi eredi del 1956 distorcendone del tutto i significati, l’essenza. In particolare c’è da sottolineare il fatto che entrambi i partiti considerano un modello coloro i quali combatterono nelle strade di Budapest, ma ne mistificano gli obiettivi. (Allo scoppio della rivoluzione hanno dato un contributo decisivo l’intellighenzia riformista e i settori del partito, situati all’opposizione, che in sostanza volevano porre fine a un certo modo tradizionale di fare politica.) Per essi la cosa più importante, riguardo al 1956, è la lotta per l’indipendenza, non tanto l’impegno per la democrazia, al quale danno meno risalto. Come dicevo, questi due partiti distorcono pesantemente gli obiettivi del 1956 e li rivestono di ideali e principi fondamentalmente conservatori. Come se i rivoluzionari, i combattenti per la libertà, volessero tornare al sistema di Horthy e all’influenza che la Chiesa aveva all’epoca sul paese. No, almeno il 90% di loro respingeva in modo netto il regime di Horthy e intendeva realizzare gli ideali di sinistra ma con l’abbattimento dello stalinismo. Volevano realizzare, insieme all’indipendenza, l’autogestione operaia e la riforma agraria. Gli ideali liberali erano tutt’al più presenti nell’aspirazione a libere elezioni, ma, in generale, non hanno caratterizzato gli obiettivi dell’insurrezione.
È possibile che la troppa retorica abbia svilito la memoria del ’56?
Direi piuttosto che la politica attuale ha creato tale situazione. Di questo non si possono incolpare i socialisti che, come ho detto prima, tacciono preferibilmente sul passato. Invece, i cosiddetti partiti di destra, hanno sempre strumentalizzato il 1956 per realizzare i loro obiettivi politici, sia in patria che all’estero. Tutto questo ha portato alle già citate pesanti falsificazioni su questo tema.
A tutt’oggi ci sono quelli che sostengono che fra l’ottobre e il novembre del 1956, si verificò in Ungheria una rivoluzione di sinistra, secondo altri la cosa non è ancora del tutto chiara anche perché elementi reazionari avrebbero avuto un ruolo importante nell’insurrezione. Lei, da storico, come vede questo aspetto?
Se consideriamo stampa, programmi radiofonici, manifesti e volantini dell’epoca, non possiamo avere dubbi sugli ideali dei rivoluzionari. Tutto questo va a integrare le dichiarazioni politiche contenute nei documenti redatti allora. Alla luce di tutto ciò non possono esserci malintesi sull’orientamento assunto dagli insorti del 1956. Chiaramente la valutazione di quegli avvenimenti è resa difficile dal fatto che la gran parte dei principi coltivati dalla sinistra di allora sono cambiati molto dopo il cambio di sistema che ha portato alla diffusione di un’ideologia completamente diversa.
Ultimamente sono emerse novità di rilievo dagli studi sui fatti del ’56?
Non mi risulta che ci siano grandi novità su questo argomento. Di piccole, invece, ce ne sono di continuo. Vi lavoro anch’io, e i miei studi hanno portato, quest’anno, all’uscita di tre volumi sulla storia del 1956 nelle aree periferiche.
Quanto a Imre Nagy, possiamo dire che è sempre stato comunista, ma proprio all’epoca della rivoluzione si liberò da tutte le vecchie consuetudini.
In questi ultimi decenni si è detto che l’insurrezione del 1956 ha lasciato ai posteri un messaggio universale. A suo modo di vedere è così? Si può parlare ancora di messaggio attuale, e se sì, qual è?
Oggi il messaggio più attuale è quello relativo alla libertà di stampa. La recente chiusura del quotidiano di opposizione Népszabadság costituisce un duro colpo inferto a questo valore. L’abuso di potere rivelato dalla chiusura del Népszabadság, avvenuta per motivi politici, non si intona certo con le celebrazioni ufficiali per ricordare il 1956. Viktor Orbán, che ha conquistato un potere assoluto, è l’ultima persona che possa simboleggiare il 1956 in quanto non rappresenta la libertà ma un potere autoritario e autocratico. Non dobbiamo, inoltre, dimenticare che prima e dopo il 1956 la sorte del paese veniva decisa a Mosca, è perciò comprensibile l’aspirazione alla libertà, all’indipendenza degli ungheresi di allora. Oggi il nostro è un paese del tutto indipendente, il nazionalismo non ha ragione di esistere, è solo una tendenza perniciosa.
I combattenti del 1956 volevano libertà e democrazia e oggi c’è chi manifesta contro Orbán e la politica antidemocratica del suo governo. Un importante scrittore ungherese, Lajos Parti Nagy, critico nei confronti di questo governo, ha detto una volta che il paese è privo di identità democratica. Qual è la sua opinione su questo e sulla situazione attuale dell’Ungheria?
È chiaro che ci siamo allontanati molto dallo spirito del 1956. In questi ultimi anni stiamo assistendo all’abbattimento dello stato di diritto e della democrazia. Invece di impegnarsi sul fronte della solidarietà, il governo porta avanti una campagna permanente basata sull’odio. E come già detto, ha soppresso brutalmente anche la libertà di stampa.

il manifesto 23.10.16
Imre Nagy riabilitato già nel 1989»
Intervista a Júlia Vásárhelyi. «Dopo l’insurrezione molti ungheresi hanno trovato rifugio all’estero. Oggi il governo vuole chiudere le frontiere nazionali di fronte a gente che fugge dalla guerra»
di Massimo Congiu
BUDAPEST Giornalista e scrittrice, Júlia Vásárhelyi, è figlia di Miklós Vásárhelyi, capo ufficio stampa del governo di Imre Nagy nel 1956, condannato a 5 anni di reclusione, poi amnistiato. Critica verso il governo guidato da Viktor Orbán, è autrice, insieme a Bálint Magyar, uomo politico dell’opposizione, di Magyar polip – A posztkommunista maffiaállam (La piovra ungherese – Lo stato-mafia postcomunista).
Il sessantesimo anniversario dell’insurrezione del 1956 avverrà in un clima di tensione, un po’ come dieci anni fa.
Nel 2006 hanno avuto luogo disordini e manifestazioni di protesta contro il governo, senza che si parlasse del ’56. L’anniversario è stato solo un pretesto. Oggi le tensioni sono causate dall’autoritarismo di Viktor Orbán, dai fatti di questi ultimi anni: la corruzione al governo, lo stato-mafia, come noi chiamiamo il sistema creato da Orbán e dai suoi collaboratori. Questi ultimi stanno cercando di cancellare la memoria dei protagonisti del ‘56, cioè Imre Nagy, Miklós Gimes, Pál Maléter. Per il Fidesz, la rivoluzione è stata opera di ragazzetti anticomunisti, e questa è una menzogna inaccettabile. L’esecutivo cerca di cancellare il ricordo dei comunisti riformisti che hanno fatto la rivoluzione e che sono stati al governo in quei giorni. Per queste commemorazioni discutibili, le autorità hanno speso circa 50 milioni di euro, una somma enorme. In più, di recente, c’è stata una seduta alla Corte Suprema ungherese per ridiscutere la riabilitazione dei dirigenti del governo di allora, condannati a morte o al carcere. Ho saputo della cosa per altre vie e sono andata alla seduta dove ho anche appreso che per la causa di mio padre era stato designato un legale. Ma la riabilitazione di Imre Nagy e dei suoi più stretti collaboratori era già avvenuta nel 1989. Con questa farsa il governo vuole attribuirsi il merito di tale gesto.
Júlia Vásárhelyi
Un modo fuorviante di celebrare questa ricorrenza…
Viene esaltato il sacrificio dei giovani che allora combatterono nelle strade di Budapest. Certo, c’erano anche loro, ma stiamo parlando di ragazzi di 14-15 anni che non capivano realmente, fino in fondo, quello che stava succedendo e che non sono stati i protagonisti assoluti di quella vicenda. Gli studenti che protestavano e il gruppo di Imre Nagy sono stati l’anima della rivoluzione; il vero riferimento della maggior parte della gente era proprio Imre Nagy che fino all’ultimo si è dichiarato comunista. Con lui c’erano i comunisti riformisti, come mio padre, che non volevano il capitalismo, ma un cambiamento.
I giovani di oggi cosa sanno del ‘56?
Niente. Hanno altro per la testa. Tanti di loro, probabilmente 300.000 o anche di più, hanno recentemente lasciato il paese perché non vedono prospettive. Chi di loro sa chi erano Maléter, Gimes, Vásárhelyi? Invece i giovani che restano sono esposti alle manipolazioni del governo e non parlano, non denunciano le sue menzogne. Di recente c’è stata una conferenza all’Associazione István Bibó (ministro nel governo Nagy ndr) sul ruolo degli intellettuali nel 1956. Non c’erano giovani, c’eravamo solo noi che siamo gli unici a raccogliere questa eredità.
Dopo l’insurrezione molti ungheresi hanno trovato rifugio all’estero. Oggi il governo vuole chiudere le frontiere nazionali di fronte a gente che fugge dalla guerra.
È una cosa vergognosa e crudele. Più volte ho avuto modo di incontrare queste persone; per esempio l’anno scorso alla stazione Keleti, dove ho portato loro cibo e coperte, e di recente al campo profughi di Röszke. Orbán dice di voler difendere l’Europa da questi migranti che minacciano di cancellare la nostra identità cristiana. Se qualcuno bussa alla mia porta perché fugge dalla guerra e non ha da mangiare, io lo accolgo, cerco di salvarlo e solo poi mi pongo il problema della sua sistemazione.
Molti anni fa, suo padre mi disse «l’Ungheria di oggi non è il paese che sognavamo nel 1956».
Lui e mia madre sono sempre stati di sinistra. Del cambiamento di regime apprezzavano la libertà di stampa, il multipartitismo, ma si rendevano conto delle iniquità sociali causate dal nuovo sistema economico che si è affermato nel paese dopo il 1989. Molti hanno perso il lavoro a causa delle leggi del capitalismo. Poi sono iniziati gli attacchi del primo governo Orbán contro la sinistra, contro tutti quelli che avevano avuto un ruolo importante nel 1956 e nella svolta dell’89. Io e mio padre abbiamo partecipato alla fondazione dell’Szdsz, L’Alleanza dei Liberi Democratici, impegnata nella difesa dei diritti umani. Orbán ci ha definiti traditori della patria perché abbiamo rilasciato interviste a giornalisti stranieri sulla situazione ungherese come sto facendo ora con lei. Sa, mio padre, che è scomparso nel 2001, era molto deluso e amareggiato per tutto questo, per come è diventato il nostro paese.

il manifesto 23.10.16
Ungheria, al via la revisione storica del governo di destra
Il premier ungherese Viktor Orbán
© LaPresse
di Massimo Congiu

BUDAPEST «Un popolo ha detto ‘basta’». È un verso dello scrittore Sándor Márai che figura negli imponenti cartelloni governativi affissi ai muri per celebrare il sessantesimo anniversario della rivolta ungherese del 1956. In essi compaiono le immagini dei combattenti di allora, per lo più giovani, gente che si rese protagonista degli scontri a fuoco avvenuti nelle strade di Budapest in quei giorni d’autunno. Da questa solenne scenografia restano esclusi Imre Nagy e i diversi membri del governo insorto, condannati a morte o a pene detentive nel 1958. Per il governo e la retorica di destra attualmente al potere o comunque in auge nel paese, i «Pesti srácok», ossia i ragazzi del ’56, sono i veri eroi dell’insurrezione, gli autentici protagonisti di quella pagina della storia ungherese. Non il comunista Nagy e i suoi collaboratori, anch’essi comunisti. Una visione che distorce i fatti, sottolineano i critici che vedono minacciata la memoria storica del Paese. Del resto, non sarebbe la prima volta: il monumento alle vittime del nazismo voluto dal governo due anni fa per celebrare il 70° anniversario dell’Olocausto è, secondo numerosi storici, un’aberrazione, in quanto presenta l’Ungheria unicamente come vittima della furia nazionalsocialista e provvede a scrollarle di dosso la responsabilità delle persecuzioni e della deportazione degli ebrei.
Il governo del Fidesz è impegnato in una riscrittura della storia patria che esalta le virtù della nazione e l’aspirazione di quest’ultima alla libertà, attraverso una lotta che si ripete nel tempo: ieri contro il sistema stalinista, oggi contro l’Ue e contro tutti i poteri esterni che vorrebbero ancora una volta comprimere l’Ungheria e impedirle di realizzare il suo destino. Si tratta di una versione dei fatti che non incoraggia l’autocritica, ma tant’è.
Oggi il paese ricorda questo nuovo anniversario tondo della sollevazione del ’56 in un clima di tensione un po’ come dieci anni fa, ma allora al governo c’erano i socialisti e i loro alleati liberaldemocratici. La popolazione è tuttora solcata da divisioni di carattere politico ed economico. Tra i sostenitori del governo e quelli dell’opposizione c’è una distanza che pare incolmabile. L’esecutivo è accusato di portare avanti una politica antidemocratica che allontana il paese dall’Europa, l’opposizione e chi sta dalla sua parte, di non avere a cuore gli interessi nazionali.
Di recente ci sono state manifestazioni di protesta contro la chiusura del Népszabadság, principale quotidiano dell’opposizione. Nuove dimostrazioni antigovernative sono previste anche per oggi in diversi punti della città. Il malessere è palpabile. Nel suo ultimo libro – Diario del pancreas – lo scrittore Péter Esterházy, scomparso tre mesi fa a 66 anni, scriveva in riferimento al ’56: «Provo a pensare alla rivoluzione. Quanta abiezione, doppiezza, menzogna, usurpazione, stoltezza si raccolgono all’ombra di uno dei momenti più importanti della nostra storia. Bisognerebbe provare gioia per un giorno come questo». Così non è, invece.

Il Sole Domenica 23.10.16
Miti antichi
Mitra, la divinità nata da Petra
di Armando Torno

Mitra (o Mithra, secondo l’etimologia persiana) fu un’antica divinità indoiranica della luce. Tale definizione, tuttavia, andrebbe precisata ricordando le interpretazioni e le epoche. Taluni studiosi vedono in questo dio una parte della triade Ahura-Mazdah, Anahita e Mitra: il primo è creatore, la seconda è la signora della natura che fa crescere e alimenta, il terzo andrebbe appunto inteso come colui che distrugge per dar vita a un nuovo ciclo. Ipparco di Nicea, che nel II secolo prima della nostra era compilò il più accurato catalogo stellare dell’antichità, invece, lo collega alla “processione degli equinozi”: Mitra, in tal caso, è il dio che causa il fenomeno. Altri contesti evidenziano come affrontasse il Sole e riuscisse a sconfiggerlo; in altri ancora emerge il racconto del mito che ispirerà il culto. Mitra diventa un dio nato da una pietra, «Petra genitrix» o «Petra virginis», attorno alla quale era attorcigliato il serpente Ouroboros; da qui si muove la tradizione che lo credeva nato da una vergine.
Il suo destino? Salvare il mondo. Il dio Sole, utilizzando un corvo, gli avrebbe ordinato di uccidere un Toro, emblema della pienezza vitale. Con l’aiuto di un cane costringe la possente bestia in una caverna, o grotta; e qui la intrappola. Ne solleva la testa prendendola per le narici, gli ficca coltello nel fianco, la finisce. Il morente, però, perdendo la vita genera dal suo corpo le piante necessarie per l’uomo: il grano dal midollo, la vite dal sangue. Due animali sostengono Mitra nella sua azione che realizza l’ordine divino: uno scorpione, che colpisce il toro ai testicoli, e un serpente, che lo aiuta con il suo fatale morso. In un’altra versione essi sarebbero inviati dal dio del male, Ahriman, allo scopo di contrastare la generazione della natura. Alla fine Mitra e il Sole ritrovano la pace: per questo celebrano un banchetto con le carni dell’ucciso. L’iconografia classica sovente raffigurava il dio nelle sembianze di un giovane con il berretto frigio, nell’atto di uccidere il Toro («tauroctonia»); ai suoi piedi appaiono il più delle volte gli animali che l’hanno aiutato. Il filosofo Porfirio, allievo di Plotino, morto a Roma nel 305 della nostra era, considerava la caverna in cui si consumò la tauroctonia immagine del cosmo. Senza evocare altre interpretazioni astronomiche del mito o ulteriori contaminazioni, diremo che il culto si diffuse a Roma già al tempo di Nerone, che fu iniziato ai misteri di Mitra, come lo sarà Giuliano tre secoli più tardi. Gordiano III, nella prima metà del III secolo, durante la campagna contro i persiani fece coniare monete con l’effige del dio: era il tempo nel quale i culti di Helios e di Mitra tendevano a fondersi e Aureliano, la cui madre era sacerdotessa del Sole, gli edificò un nuovo tempio creando un corpo di sacerdoti, i pontifices solis invicti. Già, il Sole Invitto: lo stesso Costantino vi prestò fede. Aggiungiamo soltanto che i devoti di Mitra praticavano qualcosa di simile ai sette sacramenti, conoscevano una specie di comunione con pane e acqua, o anche con acqua e vino. Era celebrata per ricordare un’ultima cena con il Maestro.
Tutto questo non deve indurre a conclusioni affrettate e, leggendo una raccolta di saggi di uno dei massimi esperti mondiali dell’argomento, Robert Turcan, dal titolo Recherches Mithriaques, appena uscita presso Les Belles Lettres, ci si accorge quanto sia complesso, variegato e ancora da studiare questo culto, per noi tra i meno conosciuti dell’antichità. Turcan, emerito della Sorbona, aveva già dedicato un libro nel 1993 all’argomento: Mithra et le mithracisme, anch’esso pubblicato dalle Belles Lettres. Con queste Recherches egli raccoglie quarant’anni di indagini, domande, scoperte o, per dirla con le sue parole, «de questions et d’investigations». Ecco le note sulla liturgia di Mitra, o il saggio sulle Motivazioni dell’intolleranza cristiana e la fine del mitraismo nel IV secolo dopo Cristo (nato a un convegno a Budapest nel 1983); non manca l’individuazione di un catechismo di questo culto, né uno studio sulla gerarchia sacerdotale nei misteri dedicati al dio. Si ritrova un testo sulla soteriologia, ovvero dottrina della salvezza, del mitraismo. In tal caso, però, la ricerca porta a una comparazione con le concezioni neoplatoniche concernenti tali questioni. D’altra parte, le ultime parole di Plotino furono un invito a «far risalire il divino che è in voi al divino che è nell’universo».
Ma qui il discorso si fa mistico, oltre che infinito. È un’altra storia, direbbe Kipling. Magari un giorno riusciremo a raccontarla.
Robert Turcan, Recherches Mithriaques , Les Belles Lettres, Paris, pagg. 522, € 65

Il Sole Domenica 23.10.16
Il libro comune
La Bibbia si fa in quattro
La Sacra Scrittura in ebraico masoretico e l’antica versione greca dei Settanta, accompagnate dall’italiano
di Gianfranco Ravasi

Forse esagerava ma non aveva del tutto torto Karl Kraus quando nei suoi Detti e contraddetti affermava che «il linguaggio è la madre, non l’ancella del pensiero». E continuava: «Il linguaggio dev’essere la bacchetta del rabdomante che scopre sorgenti di pensiero». Proprio per questo lo studio di una lingua permette di leggere un testo – anche (e soprattutto) sacro – nella sua matrice originaria tematica e culturale, impedendo che – attraverso la versione – accada quello che Cervantes segnalava per ogni traduzione: «è come contemplare un arazzo dal retro». Si spiega, così, il moltiplicarsi di strumenti che favoriscono l’approccio diretto al testo originale, anche attraverso i supporti informatici. Ad esempio, la società texana Silver Mountain Software già dal 1999 ha approntato le Bible Windows che si affacciano su tre orizzonti: l’analisi grammaticale dell’ebraico e del greco biblico; il dizionario ebraico-inglese e greco-inglese; la concordanza dei termini con un filtro grammaticale.
Se, invece, vogliamo fermarci alla carta stampata e a strumenti più “testuali” diretti, dobbiamo segnalare l’impresa messa in cantiere dalle edizioni Dehoniane di Bologna in una collana destinata a coprire tutti i 73 libri di cui si compone la Bibbia e intitolata suggestivamente “Doppio verso”, anche perché si hanno due copertine con testi rispettivamente capovolti. L’uno è riservato all’originale ebraico o greco di un libro biblico nel quale ogni parola ha la sua versione italiana interlineare quasi a ricalco letterale; l’altra sezione del volume offre, invece, una traduzione dello stesso libro biblico in modo continuo secondo la versione della Conferenza Episcopale Italiana (2008), accompagnata dall’apparato di introduzioni e di note desunte dalla ormai famosa “Bibbia di Gerusalemme”. Ad eseguire con pazienza certosina questa impresa è Roberto Reggi, un teologo che ha consacrato anni a questa operazione di fedeltà alla Parola sacra espressa nelle parole umane.
Ora, ha messo in cantiere un nuovo modulo analitico intitolato “La Bibbia quadriforme” e l’ha applicato a due libri biblici tra i più usati nella storia giudaica e cristiana, cioè la Genesi e i Salmi. La tetralogia che regge le doppie pagine di questa opera è facilmente comprensibile: al testo ebraico masoretico (cioè approntato dalla tradizione rabbinica con la vocalizzazione e altri segni di lettura), accompagnato sempre dall’interlineare italiano, si appaia l’antica versione greca detta dei “Settanta”, anch’essa sostenuta dall’interlineare italiano; infine, in calce si offrono la versione latina dei Salmi – secondo la cosiddetta Neovulgata, elaborata sulla base della celebre Vulgata di s. Girolamo, dopo il Concilio Vaticano II – e naturalmente la citata traduzione CEI. In sintesi, nei bifogli vivono in armonia e, in alcuni casi in contrappunto, i testi ebraico, greco, latino, italiano.
È questa una via per venir incontro al desiderio di molti di avere un approccio diretto alle Scritture, scoprendone le matrici primigenie in modo accurato e filologico, un desiderio – e lo affermo per esperienza personale – che sboccia anche in molti “laici” che, pur non considerando la Bibbia un testo “ispirato” da Dio, sono consapevoli della sua realtà di “grande codice” della cultura occidentale. Ovviamente questi sussidi linguistici sono fondamentali per la teologia e, attraverso essi, si spera di superare quel vuoto indotto da una scuola superiore sempre più incline a soffocare le radici umanistiche classiche, un vuoto che, conseguentemente, si ripercuote sulle stesse scuole teologiche i cui alunni sono spesso estranei al contatto coi testi originali sacri ed ecclesiali. La giovanissima carmelitana s. Teresa di Lisieux (1873-97), in un’epoca in cui gli studi teologici erano preclusi al mondo femminile, confessava: «Se io fossi stata prete, avrei studiato a fondo l’ebraico e il greco così da conoscere il pensiero divino come Dio si degnò di esprimerlo nel nostro linguaggio umano».
Per fortuna ora c’è un manipolo molto fitto e qualificato di teologhe ed esegete che possono, ad esempio, elaborare quel commentario ai quattro Vangeli pubblicato dall’editrice Ancora di Milano lo scorso anno (del quale abbiamo dato conto su queste pagine), accompagnandolo con la battuta “Le donne prendono la Parola” con evidente doppio senso... Inoltre si deve segnalare che paradossalmente questa fedeltà paziente e amorosa alla lettera è un antidoto al fondamentalismo letteralista, quello che san Paolo bollava con la frase lapidaria: «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2Corinzi 3,6). Infatti, l’accurata definizione delle singole parole svela non solo la necessità di coordinarle in un contesto, ma ne mostra anche la molteplicità delle iridescenze semantiche che le versioni cercano di recuperare e, quindi, suggeriscono la necessità dell’interpretazione. Questo processo è ignorato dai movimenti fondamentalistici di ogni religione che usano le parole sacre come pietre avulse dal contesto e dalla loro complessità strutturale e le scagliano come aeroliti sacrali contro gli altri (talora anche in senso fisico e non solo metaforico).
Proprio per questo la collana “Doppio verso”, dopo aver puntato l’obiettivo sulle singole parole vedendole come cellule viventi di un textus, cioè di un tessuto di significati specifici che si aprono a un significato globale, propone la versione unitaria commentata, cioè interpretata nella sua totalità. Aveva ragione Victor Hugo quando dichiarava che le mot est un être vivant, una realtà vivente che non può essere scarnificata dal corpo in cui è inserita e non può essere isolata dalla vitalità che sparge attorno a sé. Infine, per stare ancora nell’orizzonte della letteratura francese, dobbiamo riconoscere che on a boulversé la terre avec des mots, come scriveva Alfred de Musset. Sì, attraverso le parole è stata ed è spesso sconvolta la terra e insanguinata la storia, come purtroppo sperimentiamo nella cronaca odierna; ma con la potenza delle parole si è anche trasformata, fecondata, trasfigurata la vicenda di tanti uomini, donne e popoli.

il manifesto 23.10.16
Espressionismo astratto alla Royal Academy
Gli artisti della New York School tornano in Europa (a Londra) tutti insieme, organicamente, dopo oltre cinquant’anni: enormità, esistenzialità. Pollock, Rothko, De Kooning e Still, a ciascuno è dedicata un’enorme sala, e già questo basterebbe a silenziare certe reazioni un po’ snob
di Stefano Jossa

LONDRA “That’s Jackson Pollock. – In a word… I was just getting used to the idea of dead, maggoty meat being art. Now this?», si chiedeva Connie Baker, un’allieva del Wellesley College in Mona Lisa Smile, un pessimo film di Mike Newell del 2003, nel quale Julia Roberts interpretava la parte di un’insegnante moderna e rivoluzionaria che prova a interessare le sue studentesse bigotte all’arte contemporanea. Dopo i pezzi di carne putrescente pendenti dall’alto dei quadri di Francis Bacon, l’espressionismo astratto sarebbe stato davvero la goccia che fa traboccare il vaso, se Pollock non avesse avuto il potere magico di convertire le studentesse a uno sguardo nuovo sull’arte. Potere magico dovuto alla concezione eroica dell’artista creatore, che scioglie tutto in una sentimentalissima melassa scolastica stile L’attimo fuggente grazie al mito americano che l’individuo può migliorare il mondo. Su questo mito si è fondata tuttavia la rivoluzione artistica degli anni cinquanta e sessanta che ha cambiato per sempre la storia dell’arte mondiale, cui ora rende omaggio la Royal Academy of Art di Londra con una mostra, la prima in Europa dopo oltre cinquant’anni (The New American Painting risale al 1959), che esalta e sistematizza la più grande stagione creativa dell’ultimo secolo: Abstract Expressionism, fino al 2 gennaio; catalogo a cura di David Anfam, Royal Academy of Arts, pp. 320, sterline 40 in hardcover e sterline 28 in softcover).
La definizione di Robert Coates
Spazi enormi per tele enormi rendono davvero grandiosa l’esposizione; tanto che indignarsi per qualche accostamento frettoloso (Reinhardt e Newman, ad esempio, sulla base di assimilazioni geometriche, o Krasner e Motherwell, per l’uso dei neri) oppure per le sezioni tematiche piuttosto arbitrarie è inutile snobismo posticcio. La mostra merita gli aggettivi più iperbolici perché il solo fatto di avere quattro sale monografiche dedicate a Pollock, Rothko, Still e De Kooning è di per sé un valore assoluto: poterli vedere tutti insieme, anche se l’astrattismo andrebbe isolato anziché affollato, è esperienza visiva e intellettuale straordinaria.
Abstract Expressionism è una formula proposta dal critico d’arte Robert Coates nel 1946 sul «New Yorker» per definire le caratteristiche comuni dell’opera di Gorky, Pollock e De Kooning: riconoscendo il ruolo pioneristico di Hans Hofmann, Coates si proponeva di nobilitare (e pure istituzionalizzare) quella che fino ad allora era stata «the spatter-and-daub school of painting» (la scuola di pittura schizza-e-spalma) attraverso un riferimento a Kandinski, per il quale Alfred Barr aveva parlato di «espressionismo astratto» per la prima volta nel 1929. La contraddizione terminologica, che univa il massimo del ritrarsi (l’astrattismo, arte del togliere) col massimo dell’insistere (l’espressionismo, arte del premere), funzionava, al punto che la formula si diffuse fino a definire un vero e proprio movimento, cui gli artisti coinvolti mai si sottrassero. Hofmann fa solo capolino alla Royal Academy, ma la scelta di privilegiare l’orizzontale (l’insieme) anziché il verticale (il background) può difficilmente essere contestata, perché gli espressionisti astratti hanno in comune la tendenza a considerare la tela come un’arena e la pittura come un evento, come scrisse Harold Rosenberg, l’inventore dell’altra fortunatissima formula che ha definito quest’esperienza, action painting. In realtà, se action painting è prima di tutto gesto, trasformazione della pittura da prodotto in operazione, abstract expressionism è ancora forma, perché al centro c’è la tela, luogo della lotta esistenziale dell’artista per l’espressione. Quando Peggy Guggenheim chiedeva a Pollock il suo Mural, l’obiettivo era ancora la tela anziché l’artista, avere un Pollock anziché possedere Pollock: ecco perché una mostra di sole tele (con qualche scultura nello spazio esterno e una sala di fotografie), senza molto contesto storico e percorso biografico, è in questo caso decisamente opportuna.
L’opera sciocca ancora, insomma, fino a provocare l’ozioso dibattito se si tratti di arte oppure no, come se l’estetica dovesse rispondere a regole scritte a tavolino e immutabili nella storia. L’impatto visivo è infatti mostruoso, con il risultato che finalmente si può apprezzare da vicino quanto formule come «fatto a caso» e «potrei farlo anch’io» non significhino niente, visto che il caso è diretto da una formazione e una maestria e l’io sta proprio nell’esperienza del fare anziché in un vacuo rivendicare. Leggere Blue Poles, uno dei capolavori di Pollock in mostra alla Royal Academy, come il prodotto di una spontanea intensità sentimentale, nato da un ispirato action painting oppure da furia alcolica, due dei miti su cui si è fondato il culto di Pollock, significa non accorgersi della sua straordinaria bravura nel velocizzare la linea assottigliandola o nel rallentarla inondandola: si era limitato a sostituire il colore con la linea, indicava Frank O’Hara già nel 1959, ma il suo lavoro era esattamente lo stesso che gli artisti avevano sempre fatto. Né è esplorazione istintiva dell’inconscio Woman II di De Kooning, che solo fasulle etichettature potranno ridurre a rigurgito figurativo o problematica gender, quando si tratta di dar voce a un passaggio artistico, con Picasso oltre Picasso. Rothko, Kline e Still non pongono neppure il problema, perché per loro tutto è forma: pura ricerca del bello visuale.
1950, Nina Leen su «Life»
L’obiezione più interessante è invece quella politica, perché gli espressionisti astratti pensarono certamente più al loro successo che a modificare i rapporti di forza nella società con opere, come si sarebbe detto un tempo, socialmente impegnate. Il loro obiettivo era però scalzare i padri non per affiancarli, ma per sostituirsi a loro: The Irascibles, si chiamarono, e così li immortalò come gruppo in una splendida e famosissima foto del 1950 Nina Leen su «Life», perché a loro si deve il mito della potenza creatrice contrapposta al canone tramandato per tradizione. Mito iperborghese, certo, ma non privo di una logica di scontro generazionale, di un ribellismo e di un giovanilismo che segneranno tutta la successiva società dello spettacolo, come la chiamerà Guy Debord nel 1967, ben dopo che loro ne avevano costruito e promosso caratteristiche e conseguenze. Difficile negargli lo statuto di movimento, allora, ben prima del Sessantotto, a dispetto di chi (il curatore della mostra, David Anfam) preferisce chiamarli soltanto «fenomeno» in considerazione del fatto che non si diedero mai un manifesto né fecero campagne di reclutamento: agirono di concerto, però, consapevoli che l’arte è il medium più potente per creare miti collettivi e valori condivisi – sono degli anni sessanta i saggi di Marshall McLuhan, da Understanding Media a The Medium is the Message, che rivoluzionavano il rapporto tra mezzo e messaggio nella moderna comunicazione di massa, demolendo l’antico credo dell’autonomia dei contenuti. Abstract expressionism anche qui era arrivato prima.
La New York School (altra definizione del gruppo, per chi non amasse gli ismi) non fu certo solo il trionfo dell’individualismo capitalista nell’arte (comunque innegabile, se Pollock è passato dai 65 dollari della prima valutazione di Peggy ai 200 milioni circa che Ken Griffin avrebbe da poco pagato per Number 17A), ma anche uno straordinario momento d’incontro tra energie creative e bisogno di cambiamento. Chi dovesse uscire dalla mostra senza essere sovreccitato e senza respiro, è o cieco o morto o un po’ coglione, ha scritto il critico di «Time Out», Eddy Frankel: a volte si può avere il coraggio di essere semplicemente d’accordo.