il manifesto 20.10.16
Una spregiudicata combattente
Ricorrenze. Sono iniziate in questo mese le celebrazioni del centenario di Violeta Parra, che cadrà il 4 ottobre 2017
Cantante,
compositrice, artista e poeta, ha incarnato l'anima più sovversiva del
Cile tanto che Pinochet fece togliere il suo nome da un quartiere di
Santiago
di Francesca Lazzarato
A pochi passi da
Plaza Italia, nel centro di Santiago del Cile, c’è un edificio basso e
imponente (visto dall’alto, potrebbe assomigliare a una chitarra
tagliata a metà in verticale), fatto di immense vetrate: è il museo
Violeta Parra, che, inaugurato nel 2015, a partire da questo mese sarà
il fulcro di almeno trecento iniziative nazionali organizzate in vista
del 4 ottobre 2017, centenario della nascita di colei che il fratello
Nicanor, poeta tra i più grandi, chiama Viola piadosa, admirable,
volcánica, nei versi del lungo poema Defensa de Violeta Parra, oggi
incisi lungo la rampa d’ingresso al museo.
Non va dimenticato,
però, che in una delle strofe della «Difesa» (pubblicata per la prima
volta nel 1958, e apparsa in una versione ampliata nel 1969), aggiunte
dopo la morte dell’amatissima sorella, Nicanor la definisce anche «Viola
funebris», aggettivo che sembra far presente un secondo anniversario,
quello della morte di Violeta, suicida con un colpo di pistola nel
febbraio del 1967; tra la venuta al mondo di una donna straordinaria e
la sua scomparsa corrono dunque solo cinquant’anni, durante i quali ha
preso vita un’opera vastissima che l’ha resa celebre non solo nel suo
paese, ma in tutta l’America latina e in Europa, dove è vissuta per
alcuni anni tra Francia e Svizzera, visitando instancabilmente altre
nazioni per portarvi la sua musica.
È stata davvero lunga la
strada percorsa dalla bambina nata in una famiglia assai povera (dieci
figli, una madre sarta; un padre stroncato dalla tubercolosi e
dall’alcolismo), dall’adolescente cresciuta in campagna ed emigrata nei
quartieri popolari di Santiago, dalla giovane donna sposata con un
ferroviere comunista e incapace di trasformarsi in casalinga rassegnata,
dalla piccola cantora che si guadagnava la vita esibendosi per strada e
nei bar. E il museo, insieme alla Fondazione che porta lo stesso nome,
dà conto di questo percorso tumultuoso accostando immagini e suoni,
documenti, oggetti, musica (una sala è occupata da un «bosco sonoro»
dove, appoggiando l’orecchio a tronchi d’albero cavi, si possono
ascoltare le canzoni di Violeta) e infine opere d’arte, ossia i quadri,
le ceramiche, le sculture in filo di rame e soprattutto le stupende
arpilleras (grandi arazzi di juta ricamata) che «la Viola» produceva a
getto continuo e che nel 1959 espose a Parigi, in un padiglione del
Louvre.
Se quella di artista visuale è una delle meno note tra le
tante identità di Violeta, più celebre è quella di musicista,
compositrice e cantante, nonché di folclorista che ha registrato e
salvato almeno tremila canti popolari del suo paese, e che nutriva il
sogno di offrire a tutti il frutto del lavoro suo e di altri nell’ormai
leggendaria Carpa de la Reina, un tendone da circo alla periferia di
Santiago: un progetto difficile, osteggiato da molti, che le costò duro
lavoro e amare delusioni, e finì per essere lo scenario del suo congedo
definitivo.
Ancor meno conosciuta della Violeta pittrice e
ricamatrice è poi, almeno in Europa, l’autrice dei versi raccolti
finalmente in Poesia, un volume di oltre quattrocento pagine curato da
Paula Miranda, docente presso l’Università Cattolica del Cile e già
autrice nel 2013 di un saggio notevole, La poesía de Violeta Parra.
Presentato
il 4 ottobre presso il museo per dare inizio all’anno parriano, il
libro include, oltre ai contributi di grandi poeti e scrittori che la
stimarono e le furono amici, come de Rokha, Arguedas, Rojas, Neruda, i
testi delle 118 canzoni composte da Violeta (tra esse, alcune varianti
sconosciute di Gracias a la vida, la più famosa e la più fraintesa), ma
anche molti testi inediti e un’autobiografia in versi intitolata
Decimas, scritta tra il 1954 e il ’58 per incitamento di Nicanor.
Pubblicata due anni dopo la morte di Violeta, Decimas utilizza un metro
arcaico e tipico del folclore, che incatena strofe di dieci versi
ottosillabi, in rima e con l’obbligo di trattare un medesimo argomento
per ogni strofa.
Un esercizio complicato, che Violeta praticava
con meravigliosa naturalezza, fondendo poesia popolare e letteratura
colta, memoria personale e collettiva, e aprendo così la strada alle sue
creazioni musicali più significative, come le canzoni splendide e a
volte strazianti riunite nel disco Ultimas composiciones (un vero e
proprio congedo, prima del suicidio già altre volte tentato).
Una delle opere di Violeta Parra
Proprio
dalle pagine di Decimas, Violeta sembra venirci più che mai incontro:
dotata di innumerevoli talenti e di energia spropositata, orgogliosa,
iraconda e autoritaria, generosa all’estremo; qualcuno, scrive Nicanor,
che «non si veste da pagliaccio, non si compra e non si vende, parla la
lingua della terra». Ma anche qualcuno che certi settori della società
cilena di allora, profondamente classista e oligarchica, e della sua
cultura ufficiale, elitaria e votata al mantenimento dello status quo,
non sapevano né potevano accettare, e non solo per via delle posizioni
politiche di Violeta, espresse in canzoni mai rassegnate che trasudavano
indignazione, dolore, rabbia e ironia. Se per una parte del Cile «la
Viola» è stata troppo a lungo una nemica alla quale negare ogni sostegno
e riconoscimento – uno dei primi gesti della dittatura di Pinochet fu
quello di togliere il suo nome a un quartiere popolare di Santiago -, lo
si deve anche al suo rigore, alle sue scelte di vita, al suo essere
incredibilmente in anticipo sul proprio tempo.
Il suo approccio al
folclore, per esempio, non era certo quello più diffuso e ufficialmente
accettato, che considerava cultura e usanze del popolo come un
pittoresco cadavere da imbalsamare per garantirne l’incorruttibilità,
pronto per essere esibito in occasione di qualche festa patronale.
Invece lei, la Viola, non intendeva semplicemente «salvare» la musica e
la cultura popolare, anche se dedicò tempo ed energia a sottrarre
all’oblio canzoni, leggende, musiche registrate nei suoi infiniti viaggi
attraverso il Cile; quello che voleva era rivitalizzare e usare
materiali e forme del folclore, come nota Arguedas, «nel modo più lucido
e aggressivo», per creare qualcosa di originale che parlasse a tutti,
uscisse dal ghetto in cui si voleva rinchiuderlo e creasse
contaminazioni continue tra mondo contadino e urbano, tra «alto» e
«basso», tra vecchio e nuovo, in modo da evitare che ogni diversità
venisse cancellata dall’imposizione di un modello culturale unico.
Il
tratto più eversivo di Violeta, la sua provocazione più grande, era
però il suo modo di essere donna: libera, spregiudicata, avventurosa,
insofferente a ogni costrizione – lo testimonia, tra le altre cose, la
sua intensa e instabile vita amorosa, mai sacrificata alla strada che
vedeva tracciata davanti a sé -, lontana dai modelli di femminilità
domestica e conciliante proposti e imposti a quell’epoca, non solo in
America Latina.
Sono le donne del popolo, impegnate come sua madre
Clarisa in un lavoro continuo e logorante, pietre angolari di una
sopravvivenza difficile, quelle cui Violeta dà voce e che incarna
scegliendo panni modesti, ignorando la moda, rifiutando il trucco e le
apparenze, vivendo in case dal pavimento di terra battuta, scrivendo
canzoni e cantandole, trovando le parole per raccontarsi, ricamando,
modellando ceramiche, trasformando le tradizionali forme espressive
femminili in arte autentica e personale, mai puramente popolare o colta,
sempre lontana da ogni compiacenza o criterio commerciale.
«Uccello
in volo che nessuno può fermare», pronta a correre i rischi che la sua
etica rigorosa, la sua assoluta coerenza e le sue scelte audaci
comportavano, logorata infine dall’enorme stanchezza del combattente
solitario e ostinato (troppo facile ricondurne il suicidio a un amore
deluso, piuttosto che a un’ultima sfida), Violeta Parra è oggi onorata
da un paese che l’ha misconosciuta a lungo, eppure non rischia di
trasformarsi in un’immaginetta stereotipata o di lasciarsi imprigionare
nel museo che giustamente la celebra: la qualità eversiva della sua
opera è ancora così evidente, così palpabile, da non poter essere del
tutto metabolizzata neppure adesso, nel tempo del suo centesimo
compleanno.