il manifesto 20.10.16
Un capo dello stato embedded
di Alfonso Gianni
Nel
confronto televisivo con Luciano Violante e poi successivamente in vari
articoli, Tomaso Montanari ha giustamente evidenziato uno dei paradossi
più clamorosi della deforma costituzionale nel suo intreccio con
l’Italicum. Che consiste nella possibilità che l’elezione del capo dello
stato dal settimo scrutinio in poi possa essere opera dei soli
appartenenti al partito di maggioranza relativa, essendo questi comunque
superiori ai tre quinti dei votanti.
Tralasciamo pure per un
attimo il caso limite per cui, trattandosi di votanti e non di membri
dell’assemblea, il nuovo capo dello stato potrebbe venire eletto con tre
voti su cinque, purché gli altri parlamentari garantiscano il numero
legale. Spostiamo invece l’attenzione su un altro articolo della nostra
Costituzione – che la Renzi-Boschi non tocca e quindi ha richiamato
minore attenzione – ovvero il 90, che disciplina la messa in stato
d’accusa del capo dello stato dal parlamento in seduta comune.
Qui
emerge un’altra possibilità inquietante. Fantapolitica? Di fronte alla
totale irragionevolezza della modifica costituzional-elettorale in
corso, sarebbe ingenuo invocare il principio di realtà. E’ vero che
l’impeachment nella storia italiana è stato più evocato che attuato. I
casi sono tre. Quello di Leone che minacciato di tale provvedimento a
seguito dello scandalo Lockheed (l’acquisto dell’Italia di velivoli da
guerra statunitensi) si dimise prima che il Pci desse corso alla
procedura. Quello che sfiorò Scalfaro, a seguito dello scandalo Sisde,
cui rispose a reti unificate con il famoso: «Non ci sto». M
a
soprattutto quello antecedente riguardante Cossiga, che approdò alla
presentazione formale della messa di stato d’accusa sulla vicenda
Gladio, da parte del Pds, della Rete e di Rifondazione comunista,
richiesta poi respinta dal Parlamento nel 1991. L’anno seguente lo
stesso Violante, Pannella, Orlando e Dalla Chiesa chiesero nuovamente la
messa in stato d’accusa di Cossiga per attentato alla Costituzione,
senza però che questa approdasse al voto, perché Cossiga si dimise il 28
aprile del 1992. Come si vede qualche precedente c’è, e anche succoso.
Se
vincesse il Sì il 4 dicembre e quindi l’Italicum rimanesse in vita –
simul stabunt simul cadent – la maggioranza assoluta alla Camera sarebbe
assicurata al partito di maggioranza relativa e il senato sarebbe
composto da 100 membri. Per la eventuale messa in stato d’accusa del
presidente della repubblica basterebbero altri 26 voti per raggiungere
la soglia dei 366, che corrisponderebbe alla maggioranza assoluta dei
membri del parlamento in seduta comune. E sarebbe davvero difficile –
qui sì fantapolitico – che il partito di maggioranza relativa non
disponesse di tali voti nel Senato dei dopolavoristi, anche se
escludiamo dal novero per evidenti motivi i 5 senatori nominati dal capo
dello stato.
La morale della favola è semplice, quanto
sconcertante. Gli effetti dello sconvolgimento
costituzional-istituzionale in corso rispetto alla massima carica dello
Stato – comandante delle Forze Armate, presidente del Consiglio supremo
di difesa, che dichiara lo stato di guerra deliberato dalla Camera,
presidente del consiglio superiore della magistratura, dotato del potere
di scioglimento delle camere – non sarebbero solo quelli che esso può
essere eletto dal settimo scrutinio dai parlamentari di un solo partito,
nel caso estremo nel numero più esiguo immaginabile, ma che potrebbe
essere dismesso per volontà sempre dello stesso partito – il cui
segretario coincide con la figura del Presidente del consiglio da lui
indicato – e che opererebbe sotto questa spada di Damocle. Un vero e
totale capovolgimento.