martedì 18 ottobre 2016

il manifesto 18.10.16
Astensione
In una parola. Pochissimi sono i punti di vista che esplicitamente sostengono questa scelta come dotata di una sua razionalità politica. Fabrizio Barca ci prova
di Alberto Leiss

La parola astensione deriva dal tardo latino abstinere e significa più o meno tenere e tenersi lontano da qualcosa, saltuariamente o sistematicamente. In questo secondo caso una parola di significato simile è astinenza, che evoca scelte di carattere anche morale e religioso di cui qui non si tratta.
Gli ultimi sondaggi sui supposti orientamenti dei cittadini per il referendum costituzionale indicano una maggioranza relativa di circa il 40 per cento che dice di non essere intenzionata a votare. Se si somma a questo numero il 30 per cento (del rimanente scarso 60 per cento che afferma di voler votare) di chi si dice ancora indeciso, si ottiene una metà abbondante di elettori che per ora si tengono distanti sia dal Sì che dal No.
Non sarebbe il caso di dedicare un po’ più di attenzione alle motivazioni di questo atteggiamento tanto diffuso?
Un dibattito pubblico tutto concentrato con toni molto acuti sulla radicale contrapposizione tra i partigiani del Sì e quelli del No saprà conquistare la scarsa passione di tutti questi elettori e elettrici? (A proposito, ho visto in qualche commento l’uso del termine radicalizzarsi riferito alla discussione referendaria con significato negativo simile a quello che si usa per l’estremismo jihadista…).
Pochissimi poi sono i punti di vista che esplicitamente sostengono la scelta dell’astensione come dotata di una sua razionalità politica. Ho letto un lungo intervento di Fabrizio Barca, sul suo blog (www.fabriziobarca.it/fabrizio-barca-referendum-costituzionale/) , che invece si pronuncia a favore di una «astensione attiva» (si va a annullare la scheda, e quindi in qualche modo ci si conta distinguendosi da chi se ne sta a casa o va in gita). La sua minuziosa analisi dei pro e dei contro alla riforma cosiddetta Boschi alla fine produce un giudizio di questo tipo: sia che vinca il No, sia che vinca il Sì, immediatamente dopo ci si dovrà impegnare a fondo per correggere i difetti del sistema attuale, se rimane com’è, oppure quelli della nuova configurazione costituzionale, che a suo giudizio non mancano certo nelle norme su cui siamo chiamati a esprimerci. Una posizione che, insistendo sull’esigenza di attuare in ogni caso le prescrizioni e i principi di fondo della Costituzione, che restano invariati, sembra orientata a salvaguardare un’area politica – forse più ipotetica che reale – di mitezza e concretezza in vista di una situazione che si annuncia critica in Parlamento qualunque sia il risultato del voto.
Barca inoltre si distingue da altre posizioni a sinistra sul tema della legge elettorale. Il suo parere sull’Italicum è drastico: un sistema pessimo, anzi «terribile», ma è sbagliato legare la riforma costituzionale al «combinato disposto», giacché le leggi elettorali possono cambiare per via ordinaria, ma l’assetto del sistema dello stato è qualcosa che va giudicato in sé.
Facile criticare come pilatesco o cerchiobottista questo punto di vista, tuttavia quando ascolto l’arroganza e le minacce degli estremisti del Sì, o la faziosità rancorosa e la confusione programmatica di certi sostenitori del No, sento crescere anche in me un «animus» astensionista.
Difficile poi rimuovere qualche interrogativo sulle conseguenze politiche di questo scontro. Avrà ragione D’Alema a dire che la vittoria del No potrebbe mitigare l’arroganza di Renzi. Ma quanto crescerà invece quella dei
Brunetta, dei Grillo e dei Salvini? E se vince il Sì, chi lo ferma più il giovane fiorentino?
Una valanga di «non sto a questo gioco» non potrebbe ridurre tutti a più miti consigli?