venerdì 14 ottobre 2016

ITALIA
Emilio Gentile che interviene nel dibattito fra Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky sull’oligarchia
Repubblica 14.10.16
Emilio Gentile
“Senza sovranità popolare le nostre democrazie rischiano di trasformarsi in una recita”
intervista di Simonetta Fiori


L’oligarchia è la sola forma di governo democratico, come sostiene Eugenio Scalfari? O l’oligarchia è governo dei pochi che curano solo il proprio interesse a danno dell’interesse pubblico, come sostiene Gustavo Zagrebelsky? Mentre su questo giornale si svolge il dibattito sul rapporto tra democrazia e oligarchia, esce nella collana Idòla di Laterza un libro dello storico Emilio Gentile dalla copertina quanto mai pertinente: In democrazia il popolo è sempre sovrano, con accanto un bollino rosso Falso!. Avendo studiato per decenni i regimi totalitari, ora Gentile s’è preso la briga di vedere come funziona veramente la democrazia rappresentativa. Un’indagine storica a tratti sconfortante.
Professor Gentile, perché è falso che in democrazia il popolo è sempre sovrano?
«Proprio quando il principio della sovranità popolare è apparso trionfante in gran parte del mondo — “l’era della democrazia”, l’ha definita Bobbio — si sono manifestati i sintomi di un malessere. E il più allarmante è la sfiducia del popolo sovrano verso i governanti, le istituzioni democratiche, i partiti. Fino alla convinzione del popolo stesso di non essere sovrano: il crollo dei votanti ne è un segno manifesto».
Lei ha inventato il termine di “democrazia recitativa”. Cos’è?
«È quella democrazia che ha per palcoscenico lo Stato, come attori protagonisti i governanti e come comparsa occasionale il popolo sovrano, che entra sul palco solo per la scena delle elezioni. Peraltro ora comincia a disertare il proscenio. E tra una recita e l’altra, continuano a prevalere le oligarchie di governo e di partito, la corruzione nella classe politica, la demagogia dei capi, la degradazione della cultura politica ad annunci pubblicitari. Non mi riferisco solo all’Italia».
Quando il popolo ha smesso di essere sovrano?
«In realtà non è stato sovrano neppure alle origini delle democrazie moderne, in Francia e negli Stati Uniti. Nelle due grandi rivoluzioni che hanno affermato il principio della sovranità popolare, i primi governanti diffidavano del popolo. Il popolo è sovrano, ma chi deve esercitare questa sovranità — dicevano — non può essere tutto il popolo. O è la parte più ricca. O la parte più colta. O la parte più responsabile. E ciò spiega perché si è passati da suffragi ristretti a universali, ma dopo lotte, rivoluzioni e guerre».
Mi sta dicendo che il popolo non è mai stato sovrano?
«Sì. Però bisogna aggiungere che, nei duecento anni in cui si è realizzato questo omaggio al popolo sovrano, sono state effettivamente coinvolte moltitudini prima escluse dal diritto di scegliere i governanti e quindi di influire sulle loro decisioni: pensiamo alla straordinaria ondata democratica con il referendum sulla Repubblica».
Ma se il popolo non è mai stato sovrano, ha ragione Scalfari quando scrive che finora la democrazia è sempre stata un governo di oligarchie?
«Temo che Scalfari confonda la nozione di oligarchia con il concetto di minoranza, di cui parlava alla fine dell’Ottocento Gaetano Mosca. In tutte le società c’è la distinzione tra governanti e governati. E i governanti sono sempre una minoranza rispetto ai governati. Ma la minoranza non è sempre oligarchia, cioè governo dei ricchi a vantaggio dei ricchi. Una democrazia è governata sempre da una minoranza, ma se governa a suo vantaggio diventa un’oligarchia, se governa a vantaggio della collettività è una democrazia rappresentativa».
Il dibattito tra Scalfari e Zagrebelsky è nato dopo che, nel confronto con Renzi, il costituzionalista ha denunciato il rischio di un’involuzione oligarchica se venisse approvata la riforma costituzionale. Lei vede questo rischio?
«Sì, potrebbero crearsi le premesse, e le tentazioni, per una oligarchia. La riforma della Costituzione, unita a una legge elettorale che garantisce anche a una percentuale ridotta di votanti una maggioranza parlamentare, potrebbe favorire la tendenza del partito unico vincente — anche con le migliori intenzioni — a preservare il potere usando ogni espediente. Un’altra caratteristica dell’oligarchia che la distingue dalla democrazia è la tendenza a perpetuarsi per cooptazione, in modo irrevocabile».
Sta dicendo che la riforma costituzionale contribuisce a rendere il popolo ancora meno sovrano?
«Non sono un costituzionalista, ma ritengo che la sovranità popolare venga limitata, se non si elimina la nomina dei candidati da parte delle segreterie dei partiti e se non si garantisce una seconda camera elettiva. E al di là delle tentazioni dei governanti, non dobbiamo dimenticare la globalizzazione oligarchica costituita dai poteri economici e finanziari: non rispettano le regole di ciascuno Stato ma influiscono sulle politiche nazionali. Sono i sintomi della “postdemocrazia”, come l’ha definita Colin Crouch».
Tra popolo “desovranizzato” e oligarchie incombenti, lo scenario appare molto fosco.
«Ma non bisogna essere troppo pessimisti. Aveva ragione Churchill: “La democrazia è la peggiore forma di governo, eccetto tutte le altre”. È l’unico regime che consente di correggere i propri difetti con mezzi pacifici. Purché si voglia correggerli. Altrimenti l’ombra dell’ipocrisia la rende una democrazia recitativa, con un popolo che si rassegna a essere desovranizzato».
IL LIBRO Emilio Gentile, In democrazia il popolo è sempre sovrano. Falso! (Laterza, pagg.
144, euro 10)

Il Fatto 14.10.16
Annibale Marini L’ex presidente della Consulta demolisce la legge Boschi e Napolitano “Riforma e Parlamento sono illegittimi”
L’ex presidente avrebbe dovuto sciogliere le Camere quando il Porcellum fu bocciato Una cosa senza precedenti che compro- mette la Consulta

qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/annibale_marini


La Stampa 14.10.16
Bersani critica la manovra: amnistia sui contanti? Sembra un’idea di Corona...
L’esponente della minoranza dem contro un’ipotesi di “voluntary disclosure”. Appello dei sindacati: serve soluzione per l’emergenza dei precari

qui
http://www.lastampa.it/2016/10/13/italia/politica/bersani-critica-la-manvora-amnistia-sui-contanti-sembra-unidea-di-corona-2YZTVWyuYQQ0aRGkaNzBeJ/pagina.html


Corriere 14.10.16
Il ritorno degli ex (grandi e piccoli)
Il fronte del NO, l’Alleanza
Il ritorno della Prima Repubblica nella battaglia del 4 dicembre
L’asse tra D’Alema, gli ex dc e gli eredi del Msi. Ma Casini sta con il leader dem
di Aldo Cazzullo


Nella battaglia per il referendum avanza un plotone di uomini nuovi che si candida ad aprire una nuova stagione. Che assomiglia sempre più alla vecchia.
Avanza un plotone di uomini nuovi, e si candida ad aprire per il Paese una nuova stagione. Che assomigli il più possibile alla vecchia, quando erano tutti più felici e contenti.
Ci sono ovviamente i democristiani, che nella Prima Repubblica del proporzionale — e del debito pubblico — hanno prosperato. Attivissimo un uomo che del rigore di bilancio ha fatto una ragione di vita: Paolo Cirino Pomicino. Ma anche il suo antico rivale De Mita — «Ciriaco, io frequento gli stessi amici che frequenti tu; solo che tu li vedi a pranzo, e io li vedo dopo a cena» —, sempre disponibile a un pensoso «ragionamendo» il cui succo è: indietro tutta. Gli andreottiani sono rappresentati da un altro volto fresco: Lamberto Dini. Con agilità da toreri, i neodemocristiani di Lorenzo Cesa, dopo aver approvato la riforma in ogni votazione parlamentare, al referendum la bocceranno. Al fianco di Renzi sono rimasti solo Casini e i suoi cari. E il fronte del No ricompatta anche la diaspora socialista, dall’antico staff di De Michelis — Brunetta e Parisi — a un altro cognome mai sentito: Bobo Craxi, per una volta d’accordo con la sorella Stefania.
Poi ci sono i postcomunisti, anche loro venuti da lontano. Nella Prima Repubblica Massimo D’Alema era capogruppo alla Camera del Pci-Pds, nelle cui fila militavano giuristi come Cesare Salvi e Guido Calvi, oggi richiamati in servizio. Tra i costituzionalisti si delinea la frattura generazionale: se i «giovani» Ceccanti e Clementi sono per il Sì, gli ex presidenti della Corte costituzionale — in Italia categoria ormai più numerosa dei metalmeccanici — sono quasi tutti per il No. Come Rodotà e Tocci, Ingroia e la «Magna carta», ambizioso nome di un’associazione che deve accontentarsi di essere presieduta da Quagliariello.
L’ex Movimento sociale è rappresentato da Altero Matteoli, da Maurizio Gasparri coi suoi tweet e da un altro homo novus : Gianfranco Fini. Uno che nell’estate 1999 fece saltare le ferie ai suoi colonnelli per raccogliere le firme sull’abolizione della quota proporzionale, e ora si ritrova al fianco di chi reclama il ritorno al proporzionale purissimo. Del resto «la democrazia non è vincere», come ha detto Gustavo Zagrebelsky: è rappresentare. Mediare. Costruire consenso. Non a caso ancora nel 1992, alle ultime elezioni della Prima Repubblica, il quadripartito raccolse un sontuoso 49% e la maggioranza assoluta dei parlamentari; ancora non sapeva che gli restavano pochi mesi di vita, scanditi dalle bombe di Palermo e dagli arresti di Milano.
Dall’altra parte, chi vagheggiava l’avvento della Terza Repubblica è rimasto isolato. L’errore tattico di Renzi non è stato solo personalizzare il referendum; è stato farlo. Ansioso di essere legittimato, ha finito per delegittimarsi. Convinto ancora di vivere nel Paese del 41%, ha creduto di rafforzare il Sì offrendo la propria testa agli elettori; ha ottenuto l’effetto contrario, oltretutto su una battaglia che non era la sua.
Portare in fondo le riforme era il pedaggio pagato a Napolitano per ottenere la defenestrazione di Letta: Renzi prometteva di riportare al tavolo Berlusconi, e in una prima fase c’era pure riuscito. Poi, al momento di eleggere il nuovo inquilino del Quirinale, ha preferito ricompattare il suo partito sul nome di Mattarella, rompendo con Forza Italia. Ma ora, per la prima volta, è stato Bersani a fregare Renzi, e non il contrario come d’abitudine. La sinistra Pd prima ha ottenuto di peggiorare la riforma in cambio del suo Sì — il premier pensava a un Senato di sindaci, e ha dovuto puntare sui consiglieri regionali, vale a dire la classe «dirigente» più screditata d’Italia —; e ora, fiutato il vento di vittoria, voterà No.
Resta da capire se Berlusconi schiererà davvero il suo impero mediatico — che è lì, intatto — nella campagna contro Renzi. A giudicare dalle confidenze di Fedele Confalonieri a Francesco Verderami del Corriere , non si direbbe. Al fondatore di Forza Italia il proporzionale non dispiace, e questo è il suo unico punto di contatto con Grillo; dal quale per il resto è terrorizzato. La penultima speranza di Renzi è che Berlusconi non si impegni a fondo contro di lui. L’ultima è che D’Alema organizzi presto un’altra bella riunione di reduci della Prima Repubblica.

Repubblica 14.10.16
Arturo Parisi,  fondatore dell’ulivo e ex ministro
“Il No? Un’alleanza tra chi odia il premier e chi vuole solo ritornare al passato”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA. «Vedo una grande spinta a tornare indietro. C’è un’alleanza tra quelli che non vogliono altro che la fine di Renzi e quelli che pensano sia meglio tornare al passato». Arturo Parisi, ex minsitro della Difesa, il professore che, con Romano Prodi, fondò l’Ulivo, avverte del rischio.
Professor Parisi, il Pd compie nove anni e siamo al momento del commiato da parte della sinistra dem?
«Nove anni dalle primarie che elessero Veltroni. Quasi diciassette da quando come Democratici, all’insegna dell’Asinello scalciante, proponemmo, proprio su Repubblica, di scioglierci tutti in un nuovo partito, il Pd. Sembra un secolo. E dovremmo tornare ancora una volta alla prima casella?
Ma secondo lei c’è il rischio scissione?
«Strada ne abbiamo fatta. Tuttavia, anche se sempre meno, ci sono ancora alcuni come Bersani e i suoi che indugiano alla partenza chiedendo di aspettarli»..
Alla gente , dice Renzi, interessa assai più la pastorizia che il caso Pd e le leggi elettorali: insomma è una sfida autoreferenziale?
«Autoreferenziale se i politici si parlano solo tra di loro. La vera sfida sta nello spiegare ai cittadini come le regole influiscono sulle decisioni. Comunque non si tratta di spiegare ai pastori, che anche se fanno un’attività arcaica, sono informatissimi. Renzi può starne sicuro » Lei voterà Sì al referendum, l’ha già detto. Ma come giudica questo scontro all’Ok Corral? Se il Sì perde sarà l’apocalisse, l’instabilità per il Paese?
«Non catastrofe, ma apocalisse nell’antico senso di disvelamento. Esattamente come accadde per il divorzio o per la scelta repubblicana il referendum strapperà il velo che copre la nostra realtà più profonda e ci dirà in che misura l’Italia è già cambiata più che quanto intende cambiare. Ci dirà quanta parte del Paese è ancora disposta ad assistere impotente alla eterna concordia discorde del ceto politico, a questa stabile instabilità che ogni dieci mesi ci promette con un nuovo governo un nuovo futuro. È il momento che tutti quelli che sono dalla parte del cambiamento partecipino e facciano sentire la loro voce».
Il referendum costituzionale è diventato un giudizio su Renzi e il governo? Sono stati commessi errori in questa campagna referendaria?
«Ci sono stati errori e continuano a esserci. Una eccessiva confusione appunto tra il chi e il che cosa. Ma la denuncia della personalizzazione a questo punto rischia di diventare stucchevole. È il momento di correggere definitivamente toni e comportamenti per concentrarci sull’oggetto e solo su quello, alleggerendoci dall’ossessione su chi comanda oggi e pensando al domani, anzi al dopodomani . Quella che ci attende è una scelta storica, che deciderà del nostro futuro, dentro ogni partito certo, ma soprattutto di quello del Paese».
Come giudica il fronte eterogeneo che da D’Alema a Fini si organizza per il No?
«Un’alleanza tra quelli che non vogliono altro che la fine di Renzi e quelli che pensano sia meglio tornare al passato».
Contro il progetto renziano, nel timore di una deriva a destra e del partito della nazione, l’ex segretario dem Bersani si appella proprio all’Ulivo.
«La verità è che dietro lo stesso nome Ulivo ci son state purtroppo dall’inizio idee diverse. Se il mio Ulivo è in gran parte ormai un passato, dietro il suo Ulivo si intravede ancora oggi il trapassato. È per questo che, esattamente in questi giorni, diciotto anni, fa il nostro Ulivo fu sciolto a seguito della convergente iniziativa politica di Cossiga e D’Alema».
Si aspettava che la riforma costituzionale potesse dividere tanto?
«Non mi meraviglia. I toni e il rispetto reciproco vanno salvaguardati sempre, ma ogni decisione, soprattutto di questo rilievo, fa rima con divisione».

La Stampa 14.10.16
I cinque stelle orfani della copertura di Dario Fo
di Marcello Sorgi


Rimpianto e celebrato come un padre della patria, da Mattarella e Renzi, da sinistra a destra, Dario Fo, artista anti-regime per tutti i novant’anni della sua vita, lascia un vuoto politico all’interno del Movimento 5 stelle, l’ultima formazione a cui si era avvicinato, partecipando anche alla campagna elettorale per le politiche del 2013, e più di recente anche alla corsa per il Campidoglio, in sostegno di Virginia Raggi.
Fo incarnava l’anima di sinistra del movimento fondato da Beppe Grillo, che invece ha preferito sempre glissare sulla collocazione dei 5 stelle, usando indifferentemente l’ambientalismo, la questione degli immigrati, perfino la mafia, e incoraggiando qualsiasi psicosi liberata dalla rete, per raccogliere consensi a 360 gradi. Fo, che veniva dall’estrema sinistra milanese, aveva fatto del suo teatro impegnato una missione politica fin dagli Anni 70, si era schierato subito contro il centrosinistra di governo, e del M5s aveva scelto l’opposizione intransigente, senza mai preoccuparsi delle discutibili, in qualche caso, esperienze di amministrazione. Si era così stabilito una sorta di tacito accordo, tra il grande teatrante, che si era avvicinato al Movimento tramite Gianroberto Casaleggio, e la base stellata che, dai palchi su cui saliva accompagnato da Beppe Grillo, amava incitare alla protesta e al rifiuto, con le stesse parole adoperate tante volte davanti agli spettatori nei suoi teatri.
Ecco perchè difficilmente il vuoto emotivo, prima che politico, lasciato da Fo, sarà riempito. Al vertice del Movimento, un gradino sotto Grillo, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista hanno alle spalle storie e formazioni di destra. Le due sindache, Raggi e Appendino, non sono certo di sinistra. Gianroberto Casaleggio, che una parte del vissuto di Fo, e non solo per amicizia, certamente condivideva - non foss’altro per l’atteggiamento rivoluzionario, il ruolo da guru e una qualche tendenza complottista -, è mancato qualche mese prima di lui.
A conti fatti, il Movimento non ha interesse a far chiarezza sui rapporti con la sinistra: nel corso di questa legislatura, con la sola eccezione della convergenza sull’elezione dei giudici costituzionali, Grillo ha visto crescere la sua creatura attaccando Renzi e costruendo insieme a lui una sorta di nuovo bipolarismo, che s’è nutrito della crisi del centrodestra e si ripropone ad ogni scadenza elettorale, referendum compreso. Non a caso all’assemblea trasversale del No organizzata da D’Alema e Quagliariello, c’erano tutti i contrari alla riforma, ma di 5 stelle non se ne sono visti.

Corriere 14.10.16
Manovre per il referendum La Cgil e la scelta del No
risponde Sergio Romano


Susanna Camusso, segretaria della Cgil, ha dichiarato in più occasioni il No del sindacato al prossimo referendum costituzionale. Non ritiene, nel caso specifico, che estendere la propria legittima posizione personale a milioni di iscritti sia azzardato e criticabile come altre situazioni che hanno portato alla restituzione della tessera da parte di pensionati e lavoratori come quasi certamente della mia?
Carlo Rovina

Caro Rovina,
La posizione della Cgil sul referendum costituzionale del prossimo dicembre è descritta nel testo di un ordine del giorno approvato l’8 settembre dalla sua Assemblea generale nazionale. Ma l’iniziativa risale a un ordine del giorno precedente, approvato il 24 maggio. Da allora il sindacato avrebbe organizzato «centinaia di iniziative di confronto e approfondimento che hanno riscontrato anche posizioni diverse ma un consenso nei confronti dei giudizi espressi dalla Cgil».
Segue, nel testo, una analisi delle singole riforme da cui risulta che il sindacato è favorevole alla fine del bicameralismo paritario con la istituzione di una seconda Camera rappresentativa delle Regioni e delle Autonomie locali; ed è altrettanto favorevole alla revisione della riforma del Titolo V approvata nel 2001 sul rapporto fra le Regioni e lo Stato. Ma ritiene che il nuovo progetto costituzionale avrà per effetto un eccessivo rafforzamento del potere del governo e dello Stato centrale. L’organizzazione riconosce agli iscritti e ai dirigenti il diritto di esprimersi diversamente, ma «dopo questi mesi di discussione sul merito della riforma, l’Assemblea generale della Cgil invita a votare No in occasione del prossimo Referendum costituzionale».
Questa presa di posizione suggerisca qualche commento. In primo luogo il sindacato non è una semplice associazione privata. È una organizzazione a cui l’art. 39 della Costituzione riconosce il diritto di «stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Può farlo tanto meglio quanto più dimostra di essere totalmente dedicata agli interessi economici dei suoi membri, indipendentemente dalle loro simpatie e affiliazioni politiche. Se una questione nazionale, come la riforma della Costituzione, rischia di dividere il Paese in due campi contrapposti — per Renzi e contro Renzi — la maggiore preoccupazione di una organizzazione sindacale dovrebbe essere quella di astenersi da qualsiasi atteggiamento che possa intaccare la propria neutralità e credibilità. Sappiamo che i sindacati italiani vengono da una storia in cui hanno spesso avuto un profilo ideologico e politico. Ma proprio quella storia, dopo la crisi delle ideologie, dovrebbe rendere la Cgil ancora più guardinga.

Corriere 14.10. 16
L’enigma del Senato che verrà
di Antonio Polito


Tra meno di due mesi dovremo votare sul nuovo Senato, ma ancora non sappiamo come saranno scelti i nuovi senatori. In realtà non sappiamo ancora con certezza nemmeno come saranno eletti i futuri deputati, visto che tutti assicurano che l’Italicum sarà cambiato, o da una sentenza della Consulta o da una nuova legge del Parlamento, o da entrambe. Ma per Montecitorio almeno una legge c’è. Invece non c’è una legge elettorale per il nuovo Senato.
Ecco un punto sul quale bisognerebbe dare qualche indicazione chiara agli elettori, soprattutto da parte di coloro che giustamente insistono perché la riforma sia giudicata «nel merito». Il testo della nuova Costituzione non scioglie infatti l’enigma. In un comma dice con chiarezza che sono i consigli regionali a eleggere i 95 senatori (altri 5 possono essere nominati dal capo dello Stato). Ma in un altro comma si è aggiunto in extremis, al termine di una lunga trattativa con la minoranza pd, una frase secondo la quale i consigli regionali dovranno sì eleggere i senatori tra i loro membri, ma «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri». Che vuol dire? In che modo gli elettori potranno esprimere la loro preferenza? E alla fine decide sempre il consiglio regionale?
In tutti i sondaggi di opinione questo punto dell’elezione indiretta risulta il meno gradito della riforma, e di solito coagula una netta maggioranza di contrari, mentre molti altri punti sono approvati.
È comprensibile che l’elettore si fidi più del suo voto che di quello dei consiglieri regionali, un personale politico che non ha dato prove eccezionali in questi anni. In più, siccome la riforma riduce i poteri delle Regioni a vantaggio dello Stato, esprimendo così un giudizio negativo forse meritato sulla legislazione regionale, si domanda perché mai il Senato debba poi essere fatto di consiglieri regionali; i quali tra l’altro acquisiranno le stesse guarentigie dei deputati nei casi di richiesta di arresto, perquisizione o uso delle intercettazioni.
Sarebbe dunque interesse di chi sostiene il Sì chiarire come saranno scelti i senatori. Nell’ultima direzione del Pd il premier Renzi ha detto che ora accetterebbe il vecchio disegno di legge Chiti-Fornaro della minoranza pd (ammesso che sia ancora compatibile con la nuova Costituzione) ma che il Parlamento non può occuparsene fino al giorno dopo l’eventuale vittoria del Sì al referendum, perché prima di allora il nuovo Senato non esiste. Corretto. Però dal motore primo della riforma, il governo, sarebbe lecito attendersi almeno una chiara ed esplicita indicazione, prima del voto, del metodo che propone per selezionare i nuovi senatori.
Anche perché la vittoria del Sì non chiuderebbe i giochi. Innanzitutto come abbiamo visto ci vuole una legge elettorale nazionale, e ci vuole entro la fine della legislatura. Ma poi, una volta varata, bisognerà che si adeguino ad essa le venti leggi elettorali regionali. E nemmeno tutto questo lavoro risolverà ogni dubbio che resta sui nuovi senatori. Per esempio: la riforma dice che saranno eletti «con metodo proporzionale». Ma in dieci Regioni (o Province autonome) saranno soltanto due: come si fa ad applicare il metodo proporzionale in questi casi? O si sovrastima la maggioranza (due a zero), o si sovrastima l’opposizione (uno a uno) o viene escluso il terzo incomodo (che ormai c’è in molte Regioni, causa tripolarismo).
Questi senatori sono «rappresentativi delle istituzioni territoriali», come dice la riforma, o dei partiti che li hanno eletti «con metodo proporzionale»? I senatori della Campania voteranno cioè insieme, o ognuno con il suo partito? Nel secondo caso il sistema proporzionale rischia di non dar vita a una maggioranza, aprendo un serio problema in tutte le non poche materie nelle quali il Senato continuerà a fare le leggi insieme alla Camera.
Resta infine la questione dei soldi. Che ha assunto rilievo costituzionale perché la riforma stabilisce che i nuovi senatori non riceveranno un’indennità. Dovranno però viaggiare, soggiornare a Roma, prendere pasti, nei giorni in cui lasceranno il loro lavoro di consigliere regionale o sindaco per dedicarsi a quello di senatore. Chi pagherà le note spese? Segnaliamo il problema perché sugli scontrini dei consiglieri regionali, per così dire, abbiamo già dato .

Repubblica 14.10.16
Dopo referendum lo stop del Quirinale a chi pensa alle urne
Le tentazioni incrociate: renziani pronti alle elezioni pure se vince il No, gli oppositori per un altro governo
di Goffredo De Marchis


ROMA. Il Paese è diviso e spaccato a metà, più o meno. Così dicono i sondaggi sul referendum costituzionale. Per questo Sergio Mattarella ricorda a tutti gli italiani, soprattutto a quelli, i politici, impegnati nella campagna elettorale, che c’è anche un 5 dicembre: se vince il No non verrà il diluvio universale (versione renziana del voto) e se vince il Sì non nascerà una dittatura 2.0 (la versione degli oppositori del premier). Le parole del presidente della Repubblica pronunciare l’altro ieri a Bari sono calibrate su questo messaggio di fondo. «Serve rispetto reciproco - ha detto il capo dello Stato prima e dopo la consultazione. Alla fine conterà l’interesse comune e la Costituzione stessa, così come sarà sancita dalla volontà popolare».
Ma al Quirinale arriva l’eco delle ipotesi in campo sul dopo voto. I renziani pensano alle elezioni anche in caso di vittoria del No, precedute da un governo di pochi mesi per la riforma della legge elettorale. Gli oppositori della nuova Carta immaginano già una crisi di governo che escluda Renzi da Palazzo Chigi. A entrambi i fronti il capo dello Stato dice, in sostanza, che nessuno potrà determinare un esito che è ancora tutto da scrivere. Una posizione di perfetto equilibrio alla vigilia del rush finale di una campagna che, come osserva Roberto Speranza, è tanto aspra «anche perchè è la più lunga della storia italiana. Partita a maggio durante le amministrative finirà a dicembre. Un record». Un modo per richiamare tutti alla serenità dei toni e degli argomenti. Ma guardare al 5 dicembre, il lunedì successivo al voto, significa anche ricordare che certo ci sarà una Costituzione, ma anche un presidente della Repubblica e toccherà al Quirinale tirare i fili del post-referendum. Da giorni, i sostenitori del No battono sul tasto delle elezioni anticipate. In caso di vittoria, Renzi punterà a capitalizzare l’onda del consenso, userà l’argomento del lavoro finito, del percorso riformatore condotto in porto che giustifica un governo non eletto, per correre alle urne nella primavera del 2017. Lo ha detto Pier Luigi Bersani, lo ha ripetuto Massimo D’Alema, la minoranza del Pd è sicura che il premier userà anche un altro argomento. Come fa a reggere un anno e mezzo di legislatura un Senato che fa le leggi e dà la fiducia con una Carta, in vigore, che gli ha tolto questi poteri, fatte salve le norme transitorie?
Questo possibile scenario, al netto delle dichiarazioni da campagna elettorale, è ben chiaro al Quirinale. Non è solo una voce che arriva dal fronte contrario al premier-segretario. Tanti renziani, in questi giorni, hanno parlato di questa ipotesi nei loro colloqui privati. In caso di vittoria del Sì si potrebbe aprire un confronto tra Palazzo Chigi e il Colle per verificare la tenuta della legislatura. Sapendo che Mattarella, come tutti capi dello Stato, punta alla conclusione naturale dei 5 anni di legislatura.

La Stampa 14.10.16
Stretta sulla sanità, ira delle Regioni: “I farmaci innovativi sono a rischio”
Palazzo Chigi: fondi per 112 miliardi. I governatori: ne manca uno. In bilico il piano vaccini e l’assistenza eterologa in tutta Italia
di Paolo Russo

qui
http://www.lastampa.it/2016/10/14/economia/stretta-sulla-sanit-ira-delle-regioni-i-farmaci-innovativi-sono-a-rischio-uYtsjtON67RdxTnzh1IhII/pagina.html


Il Fatto 14.10.16
Manovra, il governo taglia i fondi al servizio sanitario
“Il Fatto” ha visto le modifiche del Tesoro alla risoluzione parlamentare sul Def: cancellato il divieto di ridurre i finanziamenti
Manovra, il governo taglia i fondi al servizio sanitario
di Marco Palombi

qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/sanita__


Corriere 14.10.16
Le quattro piaghe di Roma (ma non tutto è perduto)
di Giuseppe De Rita


Da molte settimane siamo quotidianamente attratti dalle turbolenze del governo di Roma capitale e dalle ineffabili vicende della sindaca, degli assessori e degli strani circuiti che sottotraccia ne gestiscono le decisioni. Avviene però in tale modo che un po’ tutti finiamo col dimenticare che a vivere la crisi più grave è la città, non i deputati a governarla.
Chiunque a Roma scambi quattro chiacchiere con un turista, con un tassista, con un commerciante di medio lignaggio, o più semplicemente si guardi intorno, avverte che la città è inerte e vuota: non c’è effervescenza quotidiana, non ci si prepara a grandi eventi, non c’è alcuna intenzionalità a perseguire futuri significativi traguardi. Può dispiacere per chi, come me, qui c’è nato e vissuto a lungo, ma questa è una città sfatta. E nessuno si applica a capire le radici profonde di quel che è avvenuto e sta avvenendo.
La prima di queste è che la esponenziale crescita del turismo si accompagna ad una preoccupante mediocrità qualitativa sia della domanda che dell’offerta dei relativi servizi. Basta girare per Roma per averne certezza: è una città di pizzerie, tavolini per strada, folle di portapiatti, alberghetti fioriti quasi d’incanto, bed and breakfast in ogni palazzo e per ogni portone, turisti che trascinano i loro bagagli da una sistemazione «alla meglio» ad un’altra «quale che sia». Questo turismo sembra una grande fonte di ricchezza, specialmente per le categorie che lo cavalcano; ma è nei fatti un fattore di degrado lento e progressivo della vitalità collettiva, visto che lo gestiamo passivamente e con qualche cinismo, senza nessuna sfida a fare nuova e più moderna imprenditorialità, nuovi e più moderni canoni di offerta turistica. L’esperienza ci dice che dopo pochi decenni di invasione turistica le città perdono il proprio vigore; è avvenuto per Sorrento o Venezia o Firenze, ma noi romani per ora non avvertiamo il pericolo (come invece lo avverte la sindaca di Barcellona quando proclama «mai come Venezia»).
La seconda piaga di Roma è la corsa al low cost. È vero che si tratta di un fenomeno quasi universale, ma qui fa parte di un’antica attitudine dei romani ad ottenere tutto e spendere poco (sfiorando la tentazione e la goduria dello sbafo). Cerchiamo da sempre sconti, promozioni, offerte speciali (code in via Condotti come nei centri commerciali di periferia); ma sempre più cerchiamo low cost per ogni servizio (una crociera, un viaggio, una tariffa di traffico sul cellulare, ecc.) in una collettiva saga del prendere tutto e pagare poco. Se ci pensiamo bene, la contropartita è in una decrescente capacità di discernimento e nell’inerte contentarsi di quel che ci viene venduto meglio. Se si guarda al volto delle persone che scorrono annunci vari sul proprio telefonino si vedranno dei volti sempre più spenti, lontani dalle espressioni ironiche ed «impunite» del romano tradizionale. Antropologicamente «Roma non è più fra queste mura».
Questa declinazione al basso è legata anche alla crisi di un mondo impiegatizio modesto ma civile, che per decenni ha trovato identità e potere nel fare intermediazione fra Stato e cittadini, gestendo congiuntamente il primato dell’atto amministrativo e del relativo procedimento. Le innovazioni recenti, specie quelle istituzionali e digitali, stanno velocemente comprimendo tale funzione; così, centinaia di migliaia di romani (di seconda e terza generazione) restano senza identità e potere. Gli strumenti digitali, proprio quelli che li tagliano fuori, possono essere usati per un personale autogestito intrattenimento, ma il loro uso continuato li rende professionalmente precari e spesso emotivamente rancorosi; maturi forse per diventare elettori grillini, ma certo incapaci del vigore collettivo per uscire dalla palude in cui sono confinati.
Se l’esplosione turistica, la propensione al low cost, il disfacimento del ceto impiegatizio sono fenomeni abbastanza recenti, c’è un quarto fattore della crisi romana che invece è di lunga durata: la quota stabile di quella cinica moltitudine urbana («lazzari» li chiamava Croce) che vive nelle tante pieghe di margine della vita cittadina. Inutile negare che mercanti e tassisti abusivi, finti gladiatori e produttori di false anticaglie, parcheggiatori e secondi lavoristi e tante altre infinite figure sociali ci sono sempre state, nella storia romana, quasi in un tradizionale ricasco di una ristretta società borghese. Ma il fenomeno oggi (in una città ormai di «moltitudine») non è più laterale ma strutturale, quindi non facilmente gestibile e superabile.
Quattro le piaghe della città che ho cercato di mettere in fila. Ad esse, per sequela ad Antonio Rosmini, autore de Le cinque piaghe della Chiesa , verrebbe voglia di aggiungerne un’altra, eleggendo a tale onore il «governo della città». Ma indulgere all’ironia sarebbe in questo momento forse «commedia a braccio». Per esser seri, possiamo e dobbiamo un po’ tutti pensare invece a una mobilitazione collettiva, che non può certo basarsi sull’ordinaria gestione dell’esistente; ma può e deve invece fare leva nello sfruttamento dei due o tre eventi importanti che planeranno su Roma da qui al Giubileo 2025. Liberi, sperabilmente, dalla infeconda damnatio olimpica andata in scena nelle ultime settimane.

Corriere 14.10.16
Roma, il palazzo in periferia pagato 73 milioni
La spesa pazza delle Dogane per la nuova sede
la scelta dell’acquisto nonostante l’ingente patrimonio immobiliare pubblico inutilizzato
Idi Sergio Rizzo


Dice Paolo Berdini, urbanista e assessore del Comune di Roma, che uno dei problemi più annosi della capitale d’Italia riguarda le sterminate proprietà immobiliari pubbliche in stato di abbandono. A spanne, almeno un milione di metri quadrati. Ex ospedali immensi, come il Forlanini che da solo di metri quadrati ne ha 170 mila, oppure il San Giacomo che si trova a cento metri da piazza del Popolo: tutti di proprietà della Regione Lazio. Per non parlare del patrimonio inutilizzato comunale, dove si contano strutture enormi tipo la vecchia Fiera di Roma.
Una situazione di spreco inaccettabile, che fa apparire ancora più incomprensibili operazioni come quella deliberata dai vertici dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli diretta da Giuseppe Peleggi. Di che cosa si tratta è presto detto. Succede che in piena estate, l’11 luglio scorso, il comitato di gestione della medesima Agenzia, presieduto dal medesimo Peleggi, delibera di acquistare un palazzo nella estrema periferia romana. La motivazione è che esiste una legge con la quale si impone alle amministrazioni pubbliche di ridurre del 50 per cento le spese per le locazioni passive. Ecco allora che per rispettare questa tassativa disposizione si decide di rilevare un complesso immobiliare: comprandolo dai privati.
Il prezzo? Settantatré milioni e 220.500 euro più Iva. Il venditore si chiama Torre sgr. Il 62,5 per cento appartiene a Fortezza Re del gruppo Fortress, Lussemburgo. Il restante 37,5 per cento è invece di Unicredit.
L’operazione chiama in causa personalità di rilievo. Il presidente della società venditrice risponde infatti al nome di Giovanni Castellaneta. Feluca di razza, è stato vicepresidente della Finmeccanica nonché presidente della Sace. Ed è fra l’altro oggi presidente di doBank, istituto specializzato nella gestione del crediti insoluti che in precedenza si chiamava Unicredit management bank. Nel suo curriculum di ambasciatore c’è anche la sede diplomatica a Washington: del prestigioso ruolo lo investe Silvio Berlusconi quando presidente degli Stati Uniti è il suo amico George W. Bush. Ma in precedenza Castellaneta ha ricoperto l’incarico di consigliere diplomatico del Cavaliere a Palazzo Chigi con il compito di rappresentarlo ai grandi vertici internazionali.
Non è l’unica conoscenza del mondo pubblico nel consiglio di amministrazione di Torre sgr. C’è infatti anche Enzo Cardi, a lungo presidente delle Poste in epoca passata: quando, per capirci, la designazione di quella importante casella rientrava per consuetudine nella sfera d’influenza del sindacato Cisl, potentissimo fra i postini. Tanto per dovere di cronaca.
La delibera del comitato di gestione precisa che il prezzo è stato determinato dall’Agenzia del Demanio, che l’ha ritenuto congruo. Ma su questo non c’erano dubbi. Le perplessità riguardano ben altro, ovvero il fatto in sé. Mentiremmo se non dicessimo che questa operazione ha un sapore antico e decisamente amaro. In troppe occasioni, nel passato, abbiamo assistito a discutibili iniziative con lo Stato protagonista: pronto a sborsare somme «congruamente» rilevanti per comprare immobili dai privati pur disponendo di un patrimonio enorme che si potrebbe in molti casi riutilizzare con spese di ben diversa entità. Da questo punto di vista Roma è un caso di scuola. Basterebbe ricordare come anni fa proprio il ministero delle Finanze abbia ceduto alcuni importanti complessi immobiliari con lo scopo dichiarato di contribuire all’abbattimento del debito pubblico (che poi non si è verificato), salvo poi prendere in affitto un immobile che il Fondo di previdenza dei suoi dipendenti aveva comprato dal Monte dei Paschi di Siena in crisi. E ora l’Agenzia delle dogane e dei Monopoli, che fa parte della stessa amministrazione finanziaria, si compra anche un bel palazzo in periferia...