Corriere 8.10.16
L’arcivescovo Tutu e l’eutanasia: lasciatemi la scelta
La richiesta del prelato amico di Mandela
di Michele Farina
Nel
mezzo del suo 85esimo compleanno, «più vicino al terminal delle
partenze che a quello degli arrivi», Desmond Tutu chiede per sé il
diritto di decidere come e quando andarsene da questo mondo.
L’arcivescovo emerito anglicano di Città del Capo e Nobel per la Pace
1984, l’amico di Nelson Mandela che tutti in Sudafrica chiamano «The
Arch», ora «più che mai sente» la necessità di «prestare la sua voce»
alla causa della «morte dignitosamente assistita».
Un occhio alla
festa, l’altro alla cartella clinica: Tutu è reduce da uno dei suoi
sempre più frequenti tour in ospedale, dove anche questa volta dopo un
piccolo intervento chirurgico ha rintuzzato «le infezioni» che minano da
qualche tempo la sua salute. Nessuno parla di una precisa malattia
(vent’anni fa The Arch fu curato per un tumore alla prostata). È lui
stesso a descriversi più vicino all’ultimo «gate». E così, mentre nel
giorno del compleanno i ragazzi della sua Fondazione distribuiscono
dolcetti nel centro di Città del Capo in nome della campagna
#ShareTheJoy, assieme alla gioia The Arch ha deciso di condividere le
sue riflessioni in «fine vita».
Non c’è contraddizione tra l’inno
alla gioia e la via dell’eutanasia, lascia intendere Tutu dalla tribuna
del quotidiano americano The Washington Post : «Per tutta l’esistenza ho
avuto la fortuna di lavorare appassionatamente per la dignità dei
viventi. Così come ho lottato per la compassione e la giustizia nella
vita, allo stesso modo credo che i malati terminali debbano essere
trattati con giustizia e compassione davanti alla morte». The Arch non
usa giri di parole: «I morenti dovrebbero avere il diritto di scegliere
come e quando lasciare la Madre Terra». Tutu ricorda le recenti leggi
sulla «dolce morte» entrate in vigore in California e in Canada. Ma
sottolinea come «a migliaia di persone in tutto il mondo venga negato il
diritto di morire con dignità».
Su questo tema, l’incrollabile
campione dei diritti umani ha cambiato idea da poco. «Per tutta la vita
mi sono opposto all’idea della morte assistita. Due anni fa dissi che ci
avevo ripensato. Ma sull’eventualità che io stesso potessi farvi
ricorso, ero rimasto sul vago. “Non mi importa”, dicevo allora. Oggi che
sono più vicino al terminal delle partenze, lo affermo con chiarezza:
ci sto pensando, sto pensando a come vorrei essere trattato quando verrà
l’ora».
Il Sudafrica, che vanta una delle Costituzioni più
avanzate del mondo, non ha una legge sulle scelte di fine vita.
Nell’aprile 2015 un tribunale ha garantito a un malato terminale il
diritto di morire, ma il Parlamento non ha colto questa occasione per
discuterne in maniera approfondita. Anche il sasso lanciato da Tutu non
sembra aver fatto grande rumore nello stagno dell’opinione pubblica,
dominata com’è da altre emergenze e ricorrenze: le manovre del corrotto
presidente Jacob Zuma, il declino dell’Anc, le storie di mazzette che
avvolgono un ex pupillo di Nelson Mandela, Tokyo Sexwale; le proteste a
petto nudo delle studentesse della Wits University contro l’aumento
delle tasse scolastiche; l’economia sudafricana che non riparte, la
violenza sulle donne...
La dignità dei viventi è minacciata ogni
giorno nella Nazione Arcobaleno, a oltre vent’anni dalla fine
dell’apartheid. L’uomo che ha spiazzato i neri in pieno regime
dell’apartheid («siate buoni con i bianchi, hanno bisogno di riscoprire
la loro umanità», disse alla cerimonia del Nobel), il prete che ha
inventato la meravigliosa definizione di Rainbow Nation, il vecchietto
che negli ultimi anni ha tuonato mentre i potenti di turno imbrattavano
la bandiera di Mandela, oggi si ritrova abbastanza solo a interrogarsi
sulla dignità dei morenti. D’altra parte questa è sempre stata la sua
specialità, come diceva Madiba: dare voce a chi non ha voce. Con un
occhio ai dolcetti della vita, l’altro alla cartella clinica.