Corriere 8.10.16
Riconquistare credibilità grazie alla ricerca
di Andrea Sironi
Rettore Università Bocconi
Caro
direttore, nelle discussioni che caratterizzano l’esame dei problemi
economici e sociali che gravano sul nostro Paese e sull’Unione Europea —
dall’immigrazione alle crisi bancarie, dagli strumenti di stimolo alla
crescita al processo di integrazione — colpisce sia l’assenza di analisi
rigorose a fondamento delle tesi delle diverse parti che la scarsa
credibilità di cui godono le leadership intellettuali e le classi
dirigenti in generale. Un esempio fra tutti è rappresentato dalla
Brexit, avversata da economisti, capi di impresa e più in generale dalle
classi più istruite, ma alla fine prevalsa nelle urne. Una perdita di
credibilità che in parte riflette il divario crescente fra coloro che
hanno beneficiato della globalizzazione e coloro i quali ne sono
risultati esclusi o penalizzati.
Per le università questo
rappresenta una sfida che spinge a intensificare gli sforzi in tre
principali aree. La prima è rappresentata dalla mobilità sociale. La
crescente disuguaglianza economica è uno dei fattori alla base delle
tensioni che hanno accompagnato il processo di globalizzazione e che
oggi minano la credibilità delle classi dirigenti.
L’ultimo
rapporto dell’Ocse sull’istruzione nel mondo mostra come i giovani
laureati conseguano tassi di occupazione e redditi significativamente
più elevati di quelli con il solo diploma di istruzione secondaria.
Favorire l’accesso all’istruzione universitaria per i meno abbienti,
investendo in misura maggiore in borse di studio e agevolazioni
finanziarie agli studenti più bisognosi, rappresenta dunque una
priorità, specie in un Paese come il nostro, caratterizzato da una bassa
mobilità sociale e da una percentuale limitata di giovani che
conseguono una laurea.
La seconda area è rappresentata
dall’apertura internazionale. La possibilità per i giovani di
trascorrere un periodo di studio, di ricerca o di lavoro in un altro
Paese è uno strumento cruciale per accrescere la comprensione e il
rispetto reciproco fra culture, lingue, religioni differenti e al
contempo per apprezzare queste differenze. In Europa, lo strumento di
integrazione forse più potente dopo il mercato unico e la moneta unica è
stato il progetto Erasmus, che ha consentito a milioni di giovani di
trascorrere una parte della propria istruzione universitaria in un altro
Paese dell’Unione.
Infine, la terza area è quella della ricerca.
Questo è particolarmente vero per gli atenei, come quello che ho avuto
l’onore e il piacere di guidare negli ultimi quattro anni, impegnati
nelle discipline dell’economia, del diritto, del management e delle
scienze sociali in generale. Offrire ai policy maker indicazioni per la
gestione dei problemi economici e sociali con cui si confrontano che
siano fondate su analisi teoriche ed empiriche rigorose e robuste
rappresenta un compito prioritario per un’università che intenda
contribuire al progresso della società. Come noto, in Italia gli
investimenti in ricerca sono ancora sottodimensionati: la quota di Pil
destinata alla ricerca e sviluppo non è aumentata nell’ultimo
quadriennio, confermandosi su valori molto inferiori alla media dei
principali Paesi Ocse e dell’Unione europea. Con l’1,27% del Pil,
l’Italia si colloca infatti al diciottesimo posto tra i Paesi Ocse e
ancora lontana sia dalla media Ocse (2,35%), sia da quella dell’Unione
europea (2,06% per Ue 15 e 1,92% per Ue 28).
Anche la capacità di
accedere ai finanziamenti europei è limitata. Permane una significativa
distanza tra la quota dell’Italia come contributo nazionale alla
dotazione finanziaria del programma quadro (12,5%) e i finanziamenti
ottenuti (8,1% del totale erogato). Ciò è particolarmente penalizzante,
se si pensa che a livello nazionale il Fondo Ordinario per il
finanziamento degli enti e istituzioni di ricerca del Miur disponeva nel
2015 di dotazioni analoghe a quelle del 2004. A fronte di questa
situazione, i ricercatori italiani confermano buoni livelli di
produttività scientifica e di impatto. Il nostro Paese risulta infatti
caratterizzato da elevati valori di produttività se si rapporta la
produzione scientifica sia alla spesa in ricerca destinata al settore
pubblico e all’istruzione terziaria, sia al numero di ricercatori
attivi. Rispetto a questi ultimi, la produttività italiana si attesta
sul livello della Francia e superiore a quello della Germania. Anche
l’impatto della produzione italiana è superiore alla media dell’Unione
europea e maggiore di Francia e Germania, collocandosi invece, in
Europa, al di sotto di Svizzera, Olanda, Svezia e Regno Unito.
Questa
combinazione di investimenti in ricerca sottodimensionati e di elevata
produttività scientifica dei ricercatori italiani si riflette
inevitabilmente nel noto fenomeno della fuga dei cervelli, ossia il
saldo strutturalmente negativo tra ricercatori che lasciano il Paese e
ricercatori attratti dall’estero. Incrociando i flussi bilaterali tra
Italia e, rispettivamente, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e
Spagna si evidenzia, nel periodo dal 1996 al 2013, un saldo netto
negativo di oltre cinquemila scienziati. Un trend che ci impoverisce e
mina le nostre capacità di progresso futuro .