Corriere 8.10.16
I castighi non servono Un manuale spiega perché
di Marta Ghezzi
L’idea
che educare significhi controllare e correggere «porta alla ricerca
continua di sbagli e colpe. I figli sono immaturi, non colpevoli» Le
riflessioni di un pedagogo controcorrente
Luca, 3 anni. È a tavola
con mamma e papà. Guarda il piatto di minestra e prende tempo. Il
cucchiaio gira con lentezza fra i pezzi di verdura. Due minuti, tre
minuti e la bocca non si apre. «Dai assaggia», incoraggia la mamma. Quei
pezzi di verdura che galleggiano in superficie Luca li sente già in
bocca. Una sensazione sgradevole. Nooooo. La rabbia esplode, tira la
tovaglia e rovescia il piatto. Brodo ovunque, anche sui pantaloni di
papà.
Alice, 7 anni. È davanti alla tv, rapita dalle ultime
immagini di un cartone. Conosce la regola: si guarda fino alla fine, poi
si spegne. La madre non è vicina, non vede. «Per favore ancora uno,
l’ultimo, l’ultimissimo», grida Alice. Nessuna risposta. La bambina
allora fa zapping fra i canali finché non trova un cartone appena
iniziato. Arriva in sala la mamma. «Non è quello di prima». Alice nega.
La madre scoppia, «è la tua solita bugia, non mi posso mai fidare».
Daniele
Novara ha ascoltato migliaia di storie come queste. Apparentemente
diverse. Per età, situazioni e, se si riferiscono ad adolescenti, per il
contenuto trasgressivo. Lui le vede tutte uguali. E spiazza i genitori
commentando sempre nello stesso modo: «Punire? Non serve». Non lascia
aperto alcuno spiraglio: «Anche sgridare, urlare, e i castighi simbolici
sono inutili. Sono elementi estranei all’educazione e non favoriscono
crescita, responsabilizzazione, autonomia».
Novara è un pedagogo
piacentino. Docente alla Cattolica di Milano, counselor, autore di
bestseller. Da un paio di anni gira l’Italia con il format Scuola
Genitori, centrato sull’educazione. Esce in questi giorni il suo libro
«Punire non serve a nulla. Educare i figli con efficacia evitando le
trappole emotive» (Bur Rizzoli). Un manuale che spiega come fare a meno
dei castighi.
Il pedagogista affronta quello che considera il
grande equivoco: l’idea che educare significhi controllare e correggere.
«Un’ottica che porta alla ricerca continua di sbagli e colpe. Io dico: i
figli sono immaturi, non colpevoli». Cita le neuroscienze. Le ultime
ricerche confermano che la piena maturità cerebrale è raggiunta dopo i
20 anni. «Sbagliare, non riuscire a gestire le emozioni, pensare e
sentire in modo diverso, è un processo naturale. Accettiamolo e
smettiamo di voler crescere figli perfetti».
Riavvolgiamo il
nastro. Il bambino che a tre anni rovescia il piatto sulla tavola. «È in
una fase cognitiva acerba. Non sa come esprimersi, ma sa cosa ha
combinato ed è mortificato. Invece dell’urlo, si ribadisce la regola
positiva che a tavola si sta tutti insieme. Senza insistere sul resto.
Non c’è bisogno del terrore. Non è pericoloso, il bambino imparerà».
Tutto
qui? No certo. Per trasformare le situazioni di stress emotivo e di
confusione nella gestione di bambini e ragazzi, ci vuole organizzazione.
Gioco di squadra fra i genitori (più importante di mille parole con i
figli). Adeguarsi all’età dei figli (la consapevolezza delle
caratteristiche di ogni età porta a regole giuste e richieste
pertinenti). Chiarezza delle regole (creano fiducia e stabilità).
Stabilire la giusta distanza relazionale (per mantenere il ruolo di
educatore).
Novara non ha paura di andare controcorrente. «La
buona educazione è un fatto di organizzazione, non di empatia e di
chiacchierate». Ma come, il genitore «parlante» non è la conquista delle
nuove generazioni? Scuote la testa: «Sono le tesi della psicologia
britannica. Utili a loro che di natura sono freddi e compassati. Noi
siamo diversi, se potessimo esportare le emozioni, avremmo un Pil alle
stelle. Non incalzate le confidenze dei figli, lasciate che se le
scambino fra coetanei».