Corriere 7.10.16
La lunga rincorsa di Xi Jinping per restare al potere a Pechino
di Guido Santevecchi
PECHINO
C’è sempre una tazza di tè davanti a ognuno dei posti assegnati ai
dirigenti cinesi nelle grandi riunioni. E mai come quest’anno
bisognerebbe poter leggere nelle foglie del tè per indovinare il futuro
politico della Repubblica popolare. Il 24 ottobre è convocato in un
palazzo segreto di Pechino il Plenum dei circa 200 membri del Comitato
centrale comunista, la sessione decisiva prima del XIX Congresso
dell’autunno 2017 quando la consuetudine vuole che sia designato il
nuovo probabile leader del Partito-Stato, l’uomo che nel 2022 dovrà (o
dovrebbe) succedere a Xi Jinping. Le grandi manovre sono cominciate da
tempo: dietro sorrisi enigmatici la lotta è feroce. L’anno prossimo
intanto andranno in pensione 5 dei 7 membri del Comitato permanente del
Politburo, tutti ad eccezione del Segretario generale nonché Presidente
della Repubblica popolare Xi Jinping e del premier Li Keqiang. Dovrà
ritirarsi un’altra mezza dozzina almeno dei 25 membri dell’ufficio
politico. Il gruppo ristretto che guida la superpotenza cinese cambierà
radicalmente volto. In Cina non ci sono libere elezioni e nemmeno
votazioni palesi per le cariche del Partito-Stato, vale il principio del
consenso interno, della designazione, e i giochi si fanno in riunioni e
pre-riunioni come quella del Plenum che comincia il 24 e dovrebbe
concludersi il 27. In realtà le elezioni-non-elezioni cinesi durano
molto più di quelle per la Casa Bianca. Da tempo circola la voce che Xi
Jinping stia manovrando per assicurarsi i consensi che contano per
restare al potere anche dopo il 2022, quando scadrà il suo secondo
quinquennio da Presidente della Repubblica popolare: la Costituzione
limita la presidenza a due mandati consecutivi, 10 anni in tutto, e Xi è
al vertice dalla fine del 2012. Ma secondo le indiscrezioni raccolte a
Pechino, non è stato avanzato alcun nome per la successione. Se ne
sarebbe dovuto parlare ad agosto a Beidahie, la località di mare dove i
dirigenti vanno a passare le vacanze tutti insieme, protetti da cordoni
di militari e polizia segreta. Quest’anno a Beidahie Xi e compagni ci
sono restati più del solito. Ma Xi non avrebbe affrontato il tema della
successione. In questi quattro anni passati al vertice dell’Impero Xi ha
raccolto molto più potere dei suoi predecessori, tanto quanto ne aveva
avuto solo Mao Zedong, tanto prestigio internazionale quanto prima di
lui era stato riconosciuto solo a Deng Xiaoping. E da mesi Xi si sarebbe
impegnato in un’azione per rallentare il processo di selezione del
«candidato», non per restare Presidente (anche se la Costituzione si
potrebbe sempre cambiare), ma per mantenere dopo il 2022 la carica di
Segretario generale del Partito, che è il vero centro del potere. Se
questo è l’obiettivo, perché non parlare del nuovo presidente in
pectore? Per non dare tempo al designato di costituirsi una base di
consenso e poter magari sbarrare la strada al progetto di Xi. Non si
vota come negli Stati Uniti, ma il concetto di «anatra zoppa», del
leader destinato a lasciare la Casa Bianca, i cinesi lo conoscono bene.
In questi mesi Xi si è dedicato a un rimpasto massiccio, cambiando quasi
i due terzi dei capi nelle province dell’Impero: ovviamente ha piazzato
molti uomini a lui vicini. Alcuni dei promossi sono destinati a entrare
nel Politburo: circolano i nomi di Du Jiahao, 61 anni, mandato a
governare lo Hunan, i «giovani» Wu Yingjie, 59 anni e Chen Quanguo, 60,
inviati rispettivamente in Tibet e Xinjiang. Come si sono liberati nelle
province 17 posti di vertice su 31 per far posto agli uomini di Xi? È
una lotta fatta anche di arresti per corruzione ed espulsioni, come
dimostra la cacciata in blocco di 45 deputati del Liaoning
dall’Assemblea del Popolo di Pechino. L’accusa? «Frode elettorale», in
un Paese dove nessun cittadino ha mai messo piede in un seggio.