Corriere 3.19.16
La banalità del male nascosta dentro di noi
di Pierluigi Battista
I
personaggi, innanzitutto. Chi ha letto i brillanti saggi di Alessandro
Piperno apparsi l’estate scorsa sulla «Lettura», dedicati al modo con
cui Tolstoj o Flaubert o Proust amavano introdurre i personaggi dei loro
romanzi, capisce che, in Dove la storia finisce, il modo con cui
Piperno presenta i suoi non può essere una questione di dettaglio
secondario. Anzi, lo stile di presentazione dei personaggi, era questo
il succo di quegli articoli, rivela inevitabilmente una visione del
mondo dello scrittore, una concezione della letteratura, un modo di
descrivere la realtà. E dunque: i personaggi di questo nuovo romanzo di
Piperno forse irrompono arroganti e spudorati, si esibiscono sin
dall’inizio senza veli, cercano subito la luce dei riflettori? Oppure
preferiscono bussare educatamente alla porta del lettore, si lasciano
scoprire poco alla volta, consegnano le tessere del loro mosaico
esistenziale con gradualità, senza fretta, e mai compiutamente?
A
me sembra che la risposta giusta sia la seconda. Chiudi il romanzo di
Piperno e hai infatti l’impressione che i personaggi che lo abitano
prediligano così tanto la lentezza che li descrive da reclamare ancora
qualche aggiunta su se stessi fuori tempo massimo, come se non volessero
smettere di raccontarsi e di farsi raccontare. E non saprebbero come
mettere la parola fine alla loro parabola narrativa se un’esplosione
squassante e apocalittica non costringesse Matteo e Federica, Giorgio e
Martina e tutti gli altri a congedarsi in fretta per non essere
disintegrati, fatti a pezzi da un grande trauma. Una tragedia che non
purifica, ma indica il punto in cui tutto precipita: «dove la storia
finisce», come appunto recita il titolo.
«La frattura epocale», la
chiama così Piperno nelle ultimissime pagine. Ossia «uno spartiacque
tra ere inconciliabili: il prima e il dopo». Il dopo, è dove la storia
finisce e con essa il romanzo, bruscamente interrotto dalla «frattura
epocale». Il prima sono invece le pagine in cui prendono forma i
protagonisti di una storia ambientata nella Roma slabbrata e caotica del
nuovo secolo e del nuovo millennio, dove tutto si mescola ma senza
saldarsi mai in qualcosa di nuovo e di duraturo. Dove i bancarottieri
incalliti si imparentano con la prole di austeri interpreti della
militanza comunista e sotto la coltre di un convenzionale matrimonio
borghese può capitare che si annidi, come qualcosa che consuma e corrode
la vita, la tentazione del disordine e dell’irregolarità.
La Roma
che si staglia sullo sfondo di un ebraismo scolorito, amato ma non
venerato (la Piazza «era tutta un’esibizione di folclore, come se i
maggiorenti della comunità avessero chiamato Walt Disney in persona ad
allestire un museo israelita a cielo aperto»), che Alessandro Piperno
descrive con affetto non disgiunto da una dose massiccia di severità. Un
ebraismo di abitudini e di tic, di modi di dire e di automatismi
comportamentali, in cui i protagonisti del romanzo, ancora bambini,
«ogni ottobre violavano il digiuno di Kippur con un sandwich
all’insalata di pollo» e poi da adulti, braccati, finiscono nelle cucine
a preparare «cupcake kasher per un locale ortodosso di West Hollywood»,
oppure suonando, clandestini, nei ristoranti italiani di Los Angeles.
Una
Roma multiforme e sempre in maschera, quando, borghese e sazia, celebra
canonicamente gli anniversari di nozze vicino alle dune di Sabaudia per
invitare la città che conta, confermandosene parte. Oppure quando, come
Giorgio, forse la figura più problematica e sfuggente di tutta la
compagnia di personaggi di Piperno, celebra l’apertura di un grande
ristorante «Asian Fusion» (e proprio, per contrasto, in una città
aggrappata ai ricordi indelebili di una sentimentale «latteria di via
Poerio»), un locale «di tendenza», di gran moda e di prepotente
successo, catalizzatore di infinite invidie nonché bersaglio, come si
vedrà nel finale, di sconfinate malevolenze, con un nome ammiccante
nelle sue insegne, evocazione di esotismo e cosmopolitismo: l’«Orient
Express». Una Roma fatta apposta per ospitare questi protagonisti di D
ove la storia finisce , nelle cui pieghe caratteriali e morali si
nasconde ogni duplicità, ogni ambiguità, ogni sfaccettatura, ogni
nevrosi.
Duplicità, appunto. Ogni personaggio del romanzo di
Alessandro Piperno è duplice, se non proteiforme. Non si fissa mai in
un’identità fortemente riconoscibile. C’è, prima di tutti, Matteo, il
cialtrone inaffidabile, traditore, sconsiderato, poligamo compulsivo,
massacratore seriale delle psicologie e delle emozioni di chiunque gli
si avvicini, mogli e figli in particolare, e che però il lettore non
riesce a detestare malgrado la sua conclamata e miserabile abiezione.
Perché nelle sue sconclusionate scempiaggini, nel suo smisurato egoismo
di bambino mal cresciuto o mai cresciuto, e con conseguenze sempre
drammatiche per chi ne subisce l’incontenibile inclinazione
autodistruttiva, c’è sempre un fondo di sublime autenticità: un
carnefice che diventa vittima, in primo luogo vittima di se stesso.
C’è
poi Federica Zevi, Penelope suo malgrado, vittima sacrificale di un
marito fedifrago che se l’è svignata ma che lei non ha mai smesso di
amare e che adesso, a quarantanove anni, si sente maltrattata da una
malinconia nemmeno tanto mitigata da una meravigliosa propensione
all’autoironia, non addolcita dai sempre più «rari momenti di
autostima». Donna bella e piacente che tuttavia sente di suscitare
prevalentemente il desiderio di «vedovi, divorziati e single di lungo
corso», come «una Jaguar di terza mano» assediata dalla concorrenza
schiacciante di trentenni rese proterve dalla loro energia giovane. È
lei, Federica, l’eroina del romanzo, lettrice infaticabile che proprio
attraverso un libro avverte il sentore di un ennesimo passo verso
l’umiliazione, e percepisce gli annunci di un’ulteriore e dolorosa
sconfitta quando non riesce a concentrarsi su uno dei suoi romanzi
preferiti, I Buddenbrook di Thomas Mann.
E poi la galleria dei
figli, e delle famiglie che i figli hanno formato, o stanno formando o
non riescono a formare oppure formano giorno dopo giorno con una fatica
bestiale e quasi ineluttabilmente votata all’insuccesso, con alle spalle
il trauma di un padre che è sparito, che tra l’Italia e l’America ha
accumulato molte mogli abbandonate, lasciando macerie emotive in chi è
restato. Il figlio Giorgio, figlio di Matteo e della donna che ha
preceduto Federica, che oscilla tra i poli di un amore filiale vissuto
quasi come il rovesciamento di un destino — è il debole che si fa carico
del più forte — alternato a una rabbia ingovernabile, un rancore
inestinguibile. Giorgio che miete successi professionali e mondani
quando il padre scappato in America, inseguito da strozzini vendicativi,
si rotola nell’ennesimo insuccesso, giù giù ruzzolando lungo le scale
del declassamento sociale e della marginalizzazione umana. Giorgio, che
riscopre proprio quando sta per diventare padre riluttante i segni
profondi della sua appartenenza religiosa, dove il rimosso torna a galla
con violenza e passione. Giorgio, protagonista di una delle più
sconvolgenti ed esilaranti scene di ipocondria incontrollabile della
letteratura contemporanea, una notte al pronto soccorso resa cupa e
angosciosa, ma con inevitabili effetti comici sul lettore,
dall’ipotetica azione devastante di uno stecchino. Di uno stecchino:
letteralmente.
E poi Martina, la fragilissima Martina, creatura
vulnerabile quant’altre mai, figlia di Matteo e di Federica, che non
sopporta che il padre chiami Vincenzo suo marito Lorenzo ma soprattutto
non sopporta suo marito Lorenzo per ragioni che nel dipanarsi delle
pagine il lettore riconoscerà con sempre maggiore chiarezza.
E poi
una folla di personaggi minori, amici di vecchia data e amici nuovi,
genitori, suoceri, collaboratrici sensuali, mogli abbandonate, mogli
nevrotizzate, mogli addolorate, mogli gelose delle collaboratrici
sensuali del marito. E malattie, e tradimenti. E matrimoni falliti. E
Alessandro Piperno che si chiede attraverso Giorgio impegnato in un
battibecco con la moglie Sara: «Perché le donne sono sempre deluse dagli
uomini? Questo proprio non riusciva a capirlo. Non aveva amici delusi
dalle mogli, tutt’al più un po’ scoglionati. E invece non gli veniva in
mente una sola moglie che, opportunamente sollecitata, non finisse per
confessare la propria insoddisfazione per l’ignaro consorte. Due sono le
cose: o gli uomini sono di norma più deludenti, o le donne si caricano
di troppe aspettative». Già perché? Quale delle due?
È un
intreccio esistenziale di domande e di dolori che non troverà mai uno
scioglimento, con i perché che rimangono inevasi e senza risposta,
soprattutto quando si chiude il libro, ancora sotto choc per quel finale
così sorprendente. E con la sensazione che le debolezze e le meschinità
che sembrano dettare i comportamenti di tanti protagonisti del romanzo,
stavolta non sia Piperno a descriverle con la voluttà della
disillusione che di solito caratterizza i suoi romanzi, ma vivano di
vita propria, come se lo scrittore fosse rassegnato al loro predominio.
C’è
persino qualche traccia di inedita indulgenza per i suoi personaggi, in
quest’ultimo romanzo scritto da Piperno. Che in queste pagine
bellissime è un Piperno più sconfortato. O forse meno severo, con un
sarcasmo più contenuto. Con un realismo morale che a volte sembra
descrivere la banalità del male nascosta in ciascuno di noi come se
fosse parte costitutiva della commedia umana. E di questa commedia in
particolare, questa di Dove la storia finisce , che non ha nemmeno il
tempo di capire quanto, all’improvviso, stia per trasformarsi in una
tragedia. Una tragedia che spegne ogni sorriso, e pure ogni illusione
residua.