lunedì 3 ottobre 2016

Corriere 3.19.16
La banalità del male nascosta dentro di noi
di Pierluigi Battista

I personaggi, innanzitutto. Chi ha letto i brillanti saggi di Alessandro Piperno apparsi l’estate scorsa sulla «Lettura», dedicati al modo con cui Tolstoj o Flaubert o Proust amavano introdurre i personaggi dei loro romanzi, capisce che, in Dove la storia finisce, il modo con cui Piperno presenta i suoi non può essere una questione di dettaglio secondario. Anzi, lo stile di presentazione dei personaggi, era questo il succo di quegli articoli, rivela inevitabilmente una visione del mondo dello scrittore, una concezione della letteratura, un modo di descrivere la realtà. E dunque: i personaggi di questo nuovo romanzo di Piperno forse irrompono arroganti e spudorati, si esibiscono sin dall’inizio senza veli, cercano subito la luce dei riflettori? Oppure preferiscono bussare educatamente alla porta del lettore, si lasciano scoprire poco alla volta, consegnano le tessere del loro mosaico esistenziale con gradualità, senza fretta, e mai compiutamente?
A me sembra che la risposta giusta sia la seconda. Chiudi il romanzo di Piperno e hai infatti l’impressione che i personaggi che lo abitano prediligano così tanto la lentezza che li descrive da reclamare ancora qualche aggiunta su se stessi fuori tempo massimo, come se non volessero smettere di raccontarsi e di farsi raccontare. E non saprebbero come mettere la parola fine alla loro parabola narrativa se un’esplosione squassante e apocalittica non costringesse Matteo e Federica, Giorgio e Martina e tutti gli altri a congedarsi in fretta per non essere disintegrati, fatti a pezzi da un grande trauma. Una tragedia che non purifica, ma indica il punto in cui tutto precipita: «dove la storia finisce», come appunto recita il titolo.
«La frattura epocale», la chiama così Piperno nelle ultimissime pagine. Ossia «uno spartiacque tra ere inconciliabili: il prima e il dopo». Il dopo, è dove la storia finisce e con essa il romanzo, bruscamente interrotto dalla «frattura epocale». Il prima sono invece le pagine in cui prendono forma i protagonisti di una storia ambientata nella Roma slabbrata e caotica del nuovo secolo e del nuovo millennio, dove tutto si mescola ma senza saldarsi mai in qualcosa di nuovo e di duraturo. Dove i bancarottieri incalliti si imparentano con la prole di austeri interpreti della militanza comunista e sotto la coltre di un convenzionale matrimonio borghese può capitare che si annidi, come qualcosa che consuma e corrode la vita, la tentazione del disordine e dell’irregolarità.
La Roma che si staglia sullo sfondo di un ebraismo scolorito, amato ma non venerato (la Piazza «era tutta un’esibizione di folclore, come se i maggiorenti della comunità avessero chiamato Walt Disney in persona ad allestire un museo israelita a cielo aperto»), che Alessandro Piperno descrive con affetto non disgiunto da una dose massiccia di severità. Un ebraismo di abitudini e di tic, di modi di dire e di automatismi comportamentali, in cui i protagonisti del romanzo, ancora bambini, «ogni ottobre violavano il digiuno di Kippur con un sandwich all’insalata di pollo» e poi da adulti, braccati, finiscono nelle cucine a preparare «cupcake kasher per un locale ortodosso di West Hollywood», oppure suonando, clandestini, nei ristoranti italiani di Los Angeles.
Una Roma multiforme e sempre in maschera, quando, borghese e sazia, celebra canonicamente gli anniversari di nozze vicino alle dune di Sabaudia per invitare la città che conta, confermandosene parte. Oppure quando, come Giorgio, forse la figura più problematica e sfuggente di tutta la compagnia di personaggi di Piperno, celebra l’apertura di un grande ristorante «Asian Fusion» (e proprio, per contrasto, in una città aggrappata ai ricordi indelebili di una sentimentale «latteria di via Poerio»), un locale «di tendenza», di gran moda e di prepotente successo, catalizzatore di infinite invidie nonché bersaglio, come si vedrà nel finale, di sconfinate malevolenze, con un nome ammiccante nelle sue insegne, evocazione di esotismo e cosmopolitismo: l’«Orient Express». Una Roma fatta apposta per ospitare questi protagonisti di D ove la storia finisce , nelle cui pieghe caratteriali e morali si nasconde ogni duplicità, ogni ambiguità, ogni sfaccettatura, ogni nevrosi.
Duplicità, appunto. Ogni personaggio del romanzo di Alessandro Piperno è duplice, se non proteiforme. Non si fissa mai in un’identità fortemente riconoscibile. C’è, prima di tutti, Matteo, il cialtrone inaffidabile, traditore, sconsiderato, poligamo compulsivo, massacratore seriale delle psicologie e delle emozioni di chiunque gli si avvicini, mogli e figli in particolare, e che però il lettore non riesce a detestare malgrado la sua conclamata e miserabile abiezione. Perché nelle sue sconclusionate scempiaggini, nel suo smisurato egoismo di bambino mal cresciuto o mai cresciuto, e con conseguenze sempre drammatiche per chi ne subisce l’incontenibile inclinazione autodistruttiva, c’è sempre un fondo di sublime autenticità: un carnefice che diventa vittima, in primo luogo vittima di se stesso.
C’è poi Federica Zevi, Penelope suo malgrado, vittima sacrificale di un marito fedifrago che se l’è svignata ma che lei non ha mai smesso di amare e che adesso, a quarantanove anni, si sente maltrattata da una malinconia nemmeno tanto mitigata da una meravigliosa propensione all’autoironia, non addolcita dai sempre più «rari momenti di autostima». Donna bella e piacente che tuttavia sente di suscitare prevalentemente il desiderio di «vedovi, divorziati e single di lungo corso», come «una Jaguar di terza mano» assediata dalla concorrenza schiacciante di trentenni rese proterve dalla loro energia giovane. È lei, Federica, l’eroina del romanzo, lettrice infaticabile che proprio attraverso un libro avverte il sentore di un ennesimo passo verso l’umiliazione, e percepisce gli annunci di un’ulteriore e dolorosa sconfitta quando non riesce a concentrarsi su uno dei suoi romanzi preferiti, I Buddenbrook di Thomas Mann.
E poi la galleria dei figli, e delle famiglie che i figli hanno formato, o stanno formando o non riescono a formare oppure formano giorno dopo giorno con una fatica bestiale e quasi ineluttabilmente votata all’insuccesso, con alle spalle il trauma di un padre che è sparito, che tra l’Italia e l’America ha accumulato molte mogli abbandonate, lasciando macerie emotive in chi è restato. Il figlio Giorgio, figlio di Matteo e della donna che ha preceduto Federica, che oscilla tra i poli di un amore filiale vissuto quasi come il rovesciamento di un destino — è il debole che si fa carico del più forte — alternato a una rabbia ingovernabile, un rancore inestinguibile. Giorgio che miete successi professionali e mondani quando il padre scappato in America, inseguito da strozzini vendicativi, si rotola nell’ennesimo insuccesso, giù giù ruzzolando lungo le scale del declassamento sociale e della marginalizzazione umana. Giorgio, che riscopre proprio quando sta per diventare padre riluttante i segni profondi della sua appartenenza religiosa, dove il rimosso torna a galla con violenza e passione. Giorgio, protagonista di una delle più sconvolgenti ed esilaranti scene di ipocondria incontrollabile della letteratura contemporanea, una notte al pronto soccorso resa cupa e angosciosa, ma con inevitabili effetti comici sul lettore, dall’ipotetica azione devastante di uno stecchino. Di uno stecchino: letteralmente.
E poi Martina, la fragilissima Martina, creatura vulnerabile quant’altre mai, figlia di Matteo e di Federica, che non sopporta che il padre chiami Vincenzo suo marito Lorenzo ma soprattutto non sopporta suo marito Lorenzo per ragioni che nel dipanarsi delle pagine il lettore riconoscerà con sempre maggiore chiarezza.
E poi una folla di personaggi minori, amici di vecchia data e amici nuovi, genitori, suoceri, collaboratrici sensuali, mogli abbandonate, mogli nevrotizzate, mogli addolorate, mogli gelose delle collaboratrici sensuali del marito. E malattie, e tradimenti. E matrimoni falliti. E Alessandro Piperno che si chiede attraverso Giorgio impegnato in un battibecco con la moglie Sara: «Perché le donne sono sempre deluse dagli uomini? Questo proprio non riusciva a capirlo. Non aveva amici delusi dalle mogli, tutt’al più un po’ scoglionati. E invece non gli veniva in mente una sola moglie che, opportunamente sollecitata, non finisse per confessare la propria insoddisfazione per l’ignaro consorte. Due sono le cose: o gli uomini sono di norma più deludenti, o le donne si caricano di troppe aspettative». Già perché? Quale delle due?
È un intreccio esistenziale di domande e di dolori che non troverà mai uno scioglimento, con i perché che rimangono inevasi e senza risposta, soprattutto quando si chiude il libro, ancora sotto choc per quel finale così sorprendente. E con la sensazione che le debolezze e le meschinità che sembrano dettare i comportamenti di tanti protagonisti del romanzo, stavolta non sia Piperno a descriverle con la voluttà della disillusione che di solito caratterizza i suoi romanzi, ma vivano di vita propria, come se lo scrittore fosse rassegnato al loro predominio.
C’è persino qualche traccia di inedita indulgenza per i suoi personaggi, in quest’ultimo romanzo scritto da Piperno. Che in queste pagine bellissime è un Piperno più sconfortato. O forse meno severo, con un sarcasmo più contenuto. Con un realismo morale che a volte sembra descrivere la banalità del male nascosta in ciascuno di noi come se fosse parte costitutiva della commedia umana. E di questa commedia in particolare, questa di Dove la storia finisce , che non ha nemmeno il tempo di capire quanto, all’improvviso, stia per trasformarsi in una tragedia. Una tragedia che spegne ogni sorriso, e pure ogni illusione residua.