Corriere 22.10.16
Bronx
I diari di Deborah uccisa dagli agenti «La mia vita con la schizofrenia»
di Michele Farina
Eppure lei, per 36 anni, ce l’aveva fatta. «Sorrido di rado, ma sopravvivo».
Fino
all’altra sera, fino a quel poliziotto che le ha sparato due colpi di
pistola nel petto, mentre era in camera da letto in preda a una crisi di
schizofrenia, in una palazzina del Bronx: una signora afro-americana
mezza svestita, con una mazza da baseball alzata verso la squadra di
«intrusi» in divisa, chiamati dai vicini per certi suoi non meglio
specificati «comportamenti irrazionali». Fino a quel momento, Deborah
Danner «la bestia» l’aveva in qualche modo tenuta a bada. Cadendo e
rialzandosi, «perché non sono una persona debole». Nei suoi scritti del
2012, pubblicati ieri dal New York Times , chiama così la malattia: the
beast . «Anche le persone più intelligenti del mondo non potrebbero
restare nel regno della normalità, quando sale quella scimmia sulla
spalla».
Eppure lei ci aveva passato quasi metà della vita, era
arrivata a 66 anni, quasi sempre da sola, sostenuta dalla chiesa locale,
guardata con sospetto dai familiari («Non mi chiamano, non mi invitano,
non mi vengono a trovare») lavorando nel settore informatico «perché
nel mio campo sono molto brava», cambiando spesso posto perché «quando
scoprono che ho un problema mi licenziano».
Aveva studiato a lungo
la bestia. Ci aveva scritto dei saggi. «La sua natura porta in certi
momenti a una completa perdita del controllo: sulle tue emozioni, le tue
azioni, sull’istinto, la consapevolezza». Poteva diventare «un incubo»,
la schizofrenia, anche se per Deborah Danner doveva essere considerata
«semplicemente una malattia». E invece il mondo intorno non la pensava
così. Era questo, per lei, il problema più grave. Lo stigma. La
diffidenza degli altri, il pregiudizio, l’ignoranza, e dunque
l’emarginazione. L’isolamento che si aggiungeva alla paura di stare
male. Scrive in quelle sei pagine intitolate «Vivere con la
schizofrenia»: «Sei in un perenne stato di allerta. Esaminarsi sfianca
emotivamente. E se i farmaci non funzionano? Me ne accorgerò? Quando?
Dove? Sarò abbastanza presente da capirlo? Qualcuno se ne accorgerà?
Nessuno se n’era accorto, la prima volta che ho cominciato a stare male,
quando avevo 30 anni». Neanche l’ultima volta se ne sono accorti, o
hanno fatto finta di non sapere.
Il capo della polizia del Bronx
ha dichiarato che erano già stati chiamati in diverse circostanze per la
signora Danner. L’uomo che ha sparato, il sergente Hugh Barry, otto
anni di esperienza, è sotto indagine. Gli hanno tolto la pistola, per il
momento lavorerà in ufficio. Il comandante del Dipartimento, James
O’Neill, ha già detto in conferenza stampa: «Abbiamo fallito». Il
sindaco di New York, Bill de Blasio, ha accusato il sergente Barry di
non aver seguito i protocolli sul trattamento delle persone affette da
una malattia mentale: non ha bloccato Deborah con le scariche elettriche
della pistola Taser, non ha aspettato l’arrivo di personale
specializzato. Fuori dal palazzo del Bronx, e sulle vie di Twitter,
infuriano le proteste sull’ennesima persona nera uccisa da un agente
bianco in America.
Eppure nel suo racconto in prima persona,
Deborah Danner non parla mai di bianchi e neri. Quando parla di
emarginazione, parla di tutti, anche di noi. Parla dello stigma che ci
induce a pensare «che le persone con demenza non siano più persone». Non
accusa. Descrive, con la stessa spassionata lucidità con cui spiega i
morsi improvvisi e lo strascico di flashback e allucinazioni che porta
con sé la bestia della schizofrenia. «Magari stai facendo qualcosa di
normale, come lavare i piatti, o leggere un libro, e d’improvviso ti
assale il ricordo di quella volta che giravi per le strade di New York
all’alba, con un coltello in mano, cercando un posto dove suicidarti».
Eppure
non l’aveva mai fatto. Eppure non si piangeva addosso, ma pensava a chi
stava peggio di lei: «I malati mentali che non hanno accesso alle cure
perché magari sono in carcere, o sono in giro senza casa». Quattro anni
fa, Deborah Danner denunciava i casi di persone malate «che finiscono
ammazzate dalla polizia, perché gli agenti non sanno come comportarsi
durante una crisi».
Si dilaniava l’anima, temendo di non
accorgersi di essere sul punto di perdere il controllo, di fare del male
agli altri. Quando ha premuto il suo grilletto, se ne sarà accorto il
sergente che l’ha uccisa?