venerdì 21 ottobre 2016

Corriere 21.10.16
L’inquietudine dello stoico Seneca che ci mette di fronte a noi stessi
La responsabilità, il male, la felicità. E i luoghi comuni da rovesciare
Così la lingua tagliente del filosofo mostra che siamo membra di un unico corpo
di Mauro Bonazzi

Riappropiarci di ciò che siamo: non è facile restare noi stessi quando intorno tutto cambia vorticosamente, eliminando punti di riferimento o appigli. Viene quasi da pensare che non esista qualcosa di autenticamente nostro, che possiamo chiamare legittimamente «io», perché siamo il prodotto delle interazioni sociali, il risultato della combinazione casuale degli eventi fortuiti che ci capitano. Nel mondo antico lo stoicismo è il movimento che più decisamente si è opposto a queste idee: possiamo decidere di non ascoltarla, ma dentro ciascuno c’è una coscienza morale, che parla. Siamo noi.
Vissuto in un’epoca turbolenta, facendo esperienza delle lusinghe del successo e delle minacce del potere, Seneca è il filosofo che più intensamente ha provato a vivere secondo questi precetti, in cerca di quella voce, e di un’esistenza vera. Non è semplice, perché la tentazione di cedere al conformismo si fa sempre più forte quando la pressione sociale aumenta. E negli anni tra Caligola e Nerone questa pressione ha raggiunto vertici notevoli.
Tra oscillazioni e incertezze, Seneca comunque ci ha provato. Non sono molti gli autori in cui dottrine e vita s’intrecciano davvero, in cui la linearità della teoria s’immerge nel disordine della vita quotidiana. Seneca è uno di questi: non una guida infallibile e perfetta, il terapeuta che indica senza esitazioni la via; ma un paziente insoddisfatto, in cerca prima di tutto per se stesso. C’è anche della retorica, certo, in questa strategia. Ma l’inquietudine che trapela da molte pagine è sincera, rivela l’insoddisfazione per la propria incapacità di mettere a frutto dottrine apparentemente così limpide e lineari. Anche questa è una forma di autenticità: e qui è il suo fascino.
Costruire una vita felice, genuina, in cui si possa essere finalmente se stessi, è possibile ma non è facile. È più semplice lasciarsi vivere, seguendo il flusso rassicurante di pregiudizi e abitudini, incolpando poi la sorte o gli altri per i propri insuccessi. Il problema, però, lo sa Seneca e lo sappiamo noi, è che così non funziona. I responsabili delle nostre vite siamo noi stessi, e nessun altro, è inutile nasconderselo. E dunque non resta che guardare in faccia ai problemi, affrontandoli. Ci si lamenta sempre del tempo che fugge, delle occupazioni che distolgono l’attenzione dalle cose importanti. Ma quali sono poi le cose importanti? Il comportamento quotidiano delle persone lascia pensare che siano il successo, la ricchezza o il potere: è sempre dietro a questi idoli che tutti corrono. E di chi è la colpa allora quando il rischio di aver sprecato la propria vita in attività vane si fa tangibile? Davvero, se avessimo potuto godere di un po’ di tempo in più, tutto si sarebbe potuto sistemare? «Non è vero che abbiamo poco tempo: ma ne abbiamo perduto molto», si legge nelle prime battute del trattato sulla Brevità della vita . La lingua di Seneca è tagliente, perché rovescia luoghi comuni stereotipati, mettendoci di fronte alla realtà e noi stessi.
Ad alcuni potrebbero sembrare luoghi comuni o facili moralismi. La lettura dell’altro testo, La provvidenza , mostra che non è così, perché le idee di Seneca affondano le loro radici sul solido terreno della filosofia stoica. Non si tratta solo di consigli brillanti o di frasi ad effetto. Piuttosto dobbiamo imparare a riconoscerci parte di un disegno più ampio.
La vera sfida dello stoicismo è tutta qui: comprendere che ogni cosa è collegata, che tutto si tiene e che il risultato è il meraviglioso universo che si dispiega davanti a noi. Siamo membra di questo corpo immenso. Chiusi nei nostri piccoli mondi, attaccati alle nostre cose — alla «roba», come Mazzarò nella novella di Giovanni Verga — non ci rendiamo conto di questa realtà più grande e più bella, che sola può dare senso e valore alla nostra esistenza. Da un punto di vista teorico problemi e difficoltà non mancano, come lo stesso Seneca è pronto a riconoscere. Cosa è il male allora? Da dove si origina, se nell’universo tutto è perfetto? Oscillando come al solito tra certezza dottrinale e insicurezza personale, Seneca affronta anche queste domande, proponendo risposte diverse, non tutte ugualmente soddisfacenti ma sempre interessanti.
Del resto non è un problema semplice quello del male. E su un punto almeno ha ragione: senza sapere cosa è il male non potremmo sapere cosa è davvero la felicità. «Non c’è, mi sembra, essere più sventurato di chi non ha mai avuto alcuna avversità». È un’affermazione quasi paradossale, che contiene però, forse, un grano di verità. Perché in fondo è così: nel gran teatro della vita lo «spettacolo è tanto più gradito quanto è più nobile chi lo dà». Ancora una volta tutto ricade su di noi. Siamo noi a dover scegliere da che parte stare; cosa fare insomma delle nostre vite, se lamentarci o combattere.
A leggerlo bene è più coerente di quello che sembra, Seneca.