Corriere 14.10.16
Il ritorno degli ex (grandi e piccoli)
Il fronte del NO, l’Alleanza
Il ritorno della Prima Repubblica nella battaglia del 4 dicembre
L’asse tra D’Alema, gli ex dc e gli eredi del Msi. Ma Casini sta con il leader dem
di Aldo Cazzullo
Nella
battaglia per il referendum avanza un plotone di uomini nuovi che si
candida ad aprire una nuova stagione. Che assomiglia sempre più alla
vecchia.
Avanza un plotone di uomini nuovi, e si candida ad aprire
per il Paese una nuova stagione. Che assomigli il più possibile alla
vecchia, quando erano tutti più felici e contenti.
Ci sono
ovviamente i democristiani, che nella Prima Repubblica del proporzionale
— e del debito pubblico — hanno prosperato. Attivissimo un uomo che del
rigore di bilancio ha fatto una ragione di vita: Paolo Cirino Pomicino.
Ma anche il suo antico rivale De Mita — «Ciriaco, io frequento gli
stessi amici che frequenti tu; solo che tu li vedi a pranzo, e io li
vedo dopo a cena» —, sempre disponibile a un pensoso «ragionamendo» il
cui succo è: indietro tutta. Gli andreottiani sono rappresentati da un
altro volto fresco: Lamberto Dini. Con agilità da toreri, i
neodemocristiani di Lorenzo Cesa, dopo aver approvato la riforma in ogni
votazione parlamentare, al referendum la bocceranno. Al fianco di Renzi
sono rimasti solo Casini e i suoi cari. E il fronte del No ricompatta
anche la diaspora socialista, dall’antico staff di De Michelis —
Brunetta e Parisi — a un altro cognome mai sentito: Bobo Craxi, per una
volta d’accordo con la sorella Stefania.
Poi ci sono i
postcomunisti, anche loro venuti da lontano. Nella Prima Repubblica
Massimo D’Alema era capogruppo alla Camera del Pci-Pds, nelle cui fila
militavano giuristi come Cesare Salvi e Guido Calvi, oggi richiamati in
servizio. Tra i costituzionalisti si delinea la frattura generazionale:
se i «giovani» Ceccanti e Clementi sono per il Sì, gli ex presidenti
della Corte costituzionale — in Italia categoria ormai più numerosa dei
metalmeccanici — sono quasi tutti per il No. Come Rodotà e Tocci,
Ingroia e la «Magna carta», ambizioso nome di un’associazione che deve
accontentarsi di essere presieduta da Quagliariello.
L’ex
Movimento sociale è rappresentato da Altero Matteoli, da Maurizio
Gasparri coi suoi tweet e da un altro homo novus : Gianfranco Fini. Uno
che nell’estate 1999 fece saltare le ferie ai suoi colonnelli per
raccogliere le firme sull’abolizione della quota proporzionale, e ora si
ritrova al fianco di chi reclama il ritorno al proporzionale purissimo.
Del resto «la democrazia non è vincere», come ha detto Gustavo
Zagrebelsky: è rappresentare. Mediare. Costruire consenso. Non a caso
ancora nel 1992, alle ultime elezioni della Prima Repubblica, il
quadripartito raccolse un sontuoso 49% e la maggioranza assoluta dei
parlamentari; ancora non sapeva che gli restavano pochi mesi di vita,
scanditi dalle bombe di Palermo e dagli arresti di Milano.
Dall’altra
parte, chi vagheggiava l’avvento della Terza Repubblica è rimasto
isolato. L’errore tattico di Renzi non è stato solo personalizzare il
referendum; è stato farlo. Ansioso di essere legittimato, ha finito per
delegittimarsi. Convinto ancora di vivere nel Paese del 41%, ha creduto
di rafforzare il Sì offrendo la propria testa agli elettori; ha ottenuto
l’effetto contrario, oltretutto su una battaglia che non era la sua.
Portare
in fondo le riforme era il pedaggio pagato a Napolitano per ottenere la
defenestrazione di Letta: Renzi prometteva di riportare al tavolo
Berlusconi, e in una prima fase c’era pure riuscito. Poi, al momento di
eleggere il nuovo inquilino del Quirinale, ha preferito ricompattare il
suo partito sul nome di Mattarella, rompendo con Forza Italia. Ma ora,
per la prima volta, è stato Bersani a fregare Renzi, e non il contrario
come d’abitudine. La sinistra Pd prima ha ottenuto di peggiorare la
riforma in cambio del suo Sì — il premier pensava a un Senato di
sindaci, e ha dovuto puntare sui consiglieri regionali, vale a dire la
classe «dirigente» più screditata d’Italia —; e ora, fiutato il vento di
vittoria, voterà No.
Resta da capire se Berlusconi schiererà
davvero il suo impero mediatico — che è lì, intatto — nella campagna
contro Renzi. A giudicare dalle confidenze di Fedele Confalonieri a
Francesco Verderami del Corriere , non si direbbe. Al fondatore di Forza
Italia il proporzionale non dispiace, e questo è il suo unico punto di
contatto con Grillo; dal quale per il resto è terrorizzato. La penultima
speranza di Renzi è che Berlusconi non si impegni a fondo contro di
lui. L’ultima è che D’Alema organizzi presto un’altra bella riunione di
reduci della Prima Repubblica.