sabato 1 ottobre 2016

Corriere 1.10.16
Ma sul ballottaggio il premier non cede
di Francesco Verderami

Chi mira ad abolire il ballottaggio dell’Italicum oggi, apparecchia il governo di larghe intese per domani.
Il gioco è chiaro, e anche se nel Palazzo nessuno è disposto a fare coming out, in tanti premono per la cancellazione del secondo turno dalla legge elettorale. Ma senza ballottaggio su base nazionale, sarebbe pressoché certa nella prossima legislatura la riedizione di una grande (o piccola) coalizione. Perché non c’è modello di voto, in un sistema tripolare, che possa garantire a un partito o a un rassemblement la matematica certezza di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi.
Non a caso il ballottaggio è (per ora) la linea Maginot di Renzi, che potrebbe anche tentare di resistere all’assedio di alleati e avversari, dentro e fuori il suo partito. Ma che sarebbe disarmato se fosse la Consulta ad aprire quella breccia nell’impianto dell’Italicum. È vero che la sentenza della Corte arriverà dopo il referendum, se non fosse che i due appuntamenti sono strettamente collegati e che l’incastro potrebbe trasformarsi in una trappola per il premier. Ecco perché Renzi, dopo tante resistenze, si appresta a fare un’apertura formale sulla modifica della legge elettorale.
A tutti ha dato appuntamento alla direzione del Pd, convocata il 10 ottobre, dove «entrerò nel merito delle proposte di correzione». L’abolizione dei capilista è l’estremo tentativo di far cambiare posizione alla minoranza del suo partito, sebbene il segretario democrat sia convinto che i compagni della «ditta» sceglieranno l’altro fronte della barricata al referendum. Ma la mossa — più che per rendere evidente la «pretestuosità» della linea «già decisa» dai suoi avversari interni — gli serve per lanciare un altro segnale oltre i confini del Pd.
Base d’asta della complicata mediazione sarà il premio di maggioranza da assegnare alla coalizione e non più alla lista vincitrice. Ma proprio le incognite del risultato referendario e delle successive decisioni che prenderà la Consulta, fanno capire che quello di Renzi è solo un modo per manifestare la disponibilità a rivedere l’Italicum, confidando in un sostegno al Sì dell’area moderata nella consultazione del 4 dicembre, o quantomeno in un conflitto a bassa intensità di un pezzo del centrodestra.
La vera trattativa è di là da venire. Un primo passo, però, il leader del Pd doveva farlo ora. E proprio questa manovra forzata evidenzia qual è il suo tallone d’Achille, qual è la difficoltà — rilevata finora anche dai sondaggi — di trasferire l’impulso delle iniziative di governo sulle scelte degli elettori per il referendum. Ce n’è la prova nell’ultima rilevazione di Ixè per il programma di Raitre, Agorà : mentre cala di un punto l’indice di fiducia del premier (al 30%), sale di mezzo punto il Pd (al 32%). Un tempo i dati erano invertiti, un tempo per Renzi la legge elettorale era un tabù, un tempo il Sì era dato in netto vantaggio.
L’idea che siano i proporzionalisti ad assediare l’Italicum è conseguenza di un’ottica distorta. La minaccia viene anche (forse soprattutto) da quanti propongono modelli di voto iper-maggioritari. Perché il vero e comune obiettivo è cancellare il secondo turno su base nazionale: e senza il ballottaggio, con tre blocchi che quasi si equivalgono, sarebbe quasi inevitabile l’accordo di due poli per dar vita a un governo in Parlamento. Sottovoce non c’è dirigente di partito (di maggioranza o di opposizione) che lo neghi, sotto traccia prosegue il lavorio per sfondare la linea Maginot.
È chiara quale sia la priorità nel Palazzo: il referendum servirà a regolare i conti e a decidere chi gestirà la mediazione. Così si capisce perché Berlusconi, che vuol dare una lezione a Renzi, non abbia ancora affondato il colpo. Il desiderio di prendersi una rivincita sul capo del Pd incrocia il timore di perdere il controllo della situazione dopo un’eventuale vittoria del No, a vantaggio del blocco anti-sistema.
Nei conversari di questi giorni il Cavaliere ha preso il tema alla larga. Parlando della crisi dell’Europa e del «pericolo che le forze populiste stanno portando all’Unione per incapacità delle leadership attuali», ha trasferito il discorso sull’Italia: «In una situazione difficile come questa, servirebbe che io Renzi e Grillo ci chiudessimo in una stanza per trovare una soluzione». Ma siccome sa che Grillo in quella stanza non entrerebbe, «se proprio non in tre si potrebbe stare in due».
Renzi o chi per lui, qualora dovesse passar la mano, a Berlusconi poco importa. Di certo il fondatore del centrodestra sa interpretare i numeri, magari sa qualcosa delle intenzioni della Consulta, e aspetta di capire se la linea Maginot cederà o se sarà Renzi ad aprire il varco. Il messaggio in sua vece l’ha lanciato Parisi, sostenendo che in futuro «in Parlamento dovrà esserci una maggioranza che corrisponda alla maggioranza del Paese». E se i poli sono tre, due dovranno mettersi d’accordo.