Repubblica Cult 11.9.16
Non ci sono confini siamo fatti (davvero) di polvere di stelle
di Giovanni Bignami
Lo
diceva il grande studioso dell’universo Fred Hoyle: il nostro corpo
contiene atomi che vengono dagli astri Un dato di realtà che è anche una
metafora perfetta per chiunque indaghi su ciò che siamo e che sentiamo
Il
grande astrofisico inglese Fred Hoyle (1915-2001) fu il primo a capire
che siamo fatti di polvere di stelle. Letteralmente. Tranne che per
qualche litro di idrogeno primordiale (cioè nato poco dopo il Big Bang,
quasi 14 miliardi di anni fa), tutto il resto del nostro corpo contiene
atomi costruiti in quei magnifici reattori nucleari che sono le stelle.
Per
dimostrare questa sua ardita teoria, Hoyle, nei primi anni ’50, si
presentò al direttore di un grande laboratorio americano dicendogli:
«Deve essere così, perché io esisto». Aveva intuito quelle proprietà del
carbonio che consentono al suo nucleo di essere così stabile e
abbondante, e dunque di essere alla base della vita. L’esperimento gli
diede ragione: se la fisica del nucleo del carbonio fosse diversa, anche
di pochissimo, noi non esisteremmo (anni dopo, il direttore prese il
Nobel per questo risultato, ma Hoyle no, apparentemente perché aveva un
brutto carattere).
Si trattò di una rivoluzione in fisica e in
tutta la scienza, generata a priori, per la prima volta nella storia
dell’umanità, da una intuizione antropocentrica. Hoyle era un genio, che
senza difficoltà passava da scoperte di fisica che interpretavano la
vita alla scrittura di romanzi (uno per tutti: La nuvola nera), di
grande valore letterario ma sempre rigorosamente credibili, anche quando
parlavano di intelligenza extraterrestre o di fratture nella continuità
temporale. Un fantastico esempio di unicità della cultura, ovvero della
futilità di sostenere ce ne sarebbero due, di culture, come scrisse
C.P. Snow, pur contemporaneo di Hoyle.
Personalmente, ho sempre
rigettato con violenza l’esistenza di “due culture”, una letteraria e
una scientifica. Forse per il mio passato di studi classici, sui quali
si è innestata senza difficoltà una vita da astrofisico, ho sempre
pensato che Leopardi non avrebbe scritto così bene della Luna e di
«noverar le stella ad una ad una» se non avesse, da giovanissimo,
composto un profondo trattato sulla astronomia. O che i versi di
Lucrezio nel De Rerum Natura diano risposte poetiche sì, ma facilmente
convergenti con quelle della cosmologia moderna.
Del resto, alcuni
grandissimi scrittori del Novecento, H.G. Wells ( La guerra dei mondi),
Arthur C. Clark ( 2001, Odissea nello spazio) o Carl Sagan ( Contact)
erano scienziati per educazione, ma anche capaci di dare un contributo
letterario “aere perennius” (Segan pagò la sua genialità con
l’ostracismo della comunità scientifica americana).
Eppure, negli
Usa o nel Regno Unito, non risentivano dell’italica disputa
Croce-Enriques, né tantomeno avevano dovuto (come me) studiare i
programmi voluti dal filosofo fascista Giovanni Gentile. Primo Levi
invece, come molti scrittori di oggi hanno sottolineato, aveva capito
tutto sulla unicità della cultura. In fondo, Enrico Fermi prendeva 10
anche in latino e greco, non solo in fisica.
Trovo che una sintesi
vicina alla perfezione tra scienza, filosofia ed arte si respiri nelle
opere di Oliver Sacks, scomparso da poco e non tutto tradotto in Italia.
Farsi travolgere dal suo pensiero e dalle sue storie, come dalla sua
conoscenza del cervello o della musica, è come salire una difficile
cresta affilata con Mozart a tutto volume nelle orecchie (ma senza il
rischio di cadere).
Hoyle, lo scopritore della nucleosintesi di
cui sopra e anche lui raffinato musicologo, intitolò i capitoli del suo
libro sulle spaccature nel tempo ( October the first is too late) come
pezzi di una partitura musicale. In esso, la protagonista è una
affascinante pianista moderna, cronotrasportata nella Grecia classica di
Pericle, dove sfida Apollo in un concerto davanti al Partenone. Suonerà
Chopin su un grande Steinway (anche lui cronotrasportato almeno fino al
Pireo, e poi a spalla…). Gli Ateniesi, sensibili al bello e alla
tecnica, non esitano a decretare il suo trionfo su Apollo, che per
l’occasione sportivamente accetta.
Una storia che ho riletto non
so quante volte, e che trovo sempre nuova. Per me, ha la stessa eleganza
che c’è nella comprensione del filo rosso che unisce direttamente il
Big Bang al nostro cervello, che ha tanti neuroni quante stelle ci sono
nella nostra galassia.