Repubblica 7.9.16
Quell’atto di libertà chiamato martirio
Al convegno ecumenico di Bose la riflessione su una parola tradita da chi muore per uccidere innocenti
di Enzo Bianchi
priore di Bose
Da
oggi al 10 settembre a Bose il XXIV Convegno ecumenico internazionale
di spiritualità ortodossa, in collaborazione con le Chiese ortodosse. Il
titolo è “ Martirio e comunione”. Fra i relatori Youhanna X, patriarca
greco- ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente, Enzo Bianchi, Job di
Telmessos e Panteleimon Manoussakis
Martire
è da sempre un termine dai molteplici significati. Nella storia
dell’umanità ci sono stati e ci sono molti paradigmi di martirio, anche
se di fatto la chiesa ha elaborato un «canone » per il discernimento del
martirio e di chi lo ha vissuto. La forma originaria del martirio
cristiano è quella che ci giunge dai primi tre secoli della nostra
era,attraverso gli “Acta martyrum”: forma ispirata da Stefano nel Nuovo
Testamento e poi da Policarpo di Smirne, Ignazio di Antiochia e i
martiri vittime dell’impero romano. Essa presenta il cristiano che, come
miles Christi, «soldato di Cristo», muore per il suo Signore,
condividendone la passione di fronte al potere politico e alla polis
pagana, fornendo una professione di fede pubblica, restando saldo e
paziente durante l’esecuzione capitale e arrivando a perdonare i
persecutori.
Eppure ben presto a questi
martiri uccisi “in odium fidei”, per odio della fede da loro professata,
vennero accostati coloro che erano perseguitati e uccisi per il
semplice fatto di essere cristiani, senza dare loro nemmeno la
possibilità di rinnegare o meno il loro credo. Nella storia del
cristianesimo questo “martirio” collettivo è avvenuto raramente
nell’antichità, mentre a partire dal genocidio degli armeni sono
attestati con frequenza massacri, esecuzioni di gruppi di cristiani,
uomini, donne e bambini uccisi per il solo fatto di essere una minoranza
diversa per fede rispetto alla religione dominante: in India, in
Nigeria, in Medioriente, in Vietnam, in Sudan… È quello che papa
Francesco – con riferimento ai cristiani, non gli unici ma oggi i più
numerosi tra le vittime – chiama l’ecumenismo del sangue, perché la
persecuzione in questi casi non fa distinzione tra cattolici, ortodossi o
protestanti, ma colpisce famiglie, villaggi, intere regioni solo perché
i loro abitanti sono cristiani.
Nell’epoca
delle guerre di religione in Europa abbiamo tragicamente avuto come
“martiri” dei cristiani uccisi da altri cristiani in nome della diversa
confessione di appartenenza. Questo scandaloso paradosso si è ripetuto
nel secolo scorso ed è vivo ancora oggi in alcune aree del mondo con una
variante “etica”: cristiani uccisi a motivo della loro condotta in nome
del Vangelo. Si pensi a molti difensori dei poveri e degli oppressi,
come il vescovo Oscar Romero in Salvador, a resistenti contro i tiranni,
come Dietrich Bonhoeffer nella Germania nazista, o a vittime della
mafia, come don Pino Puglisi. In questo senso il martire non sceglie la
morte, ma un modo di vivere, quello di Gesù, sceglie un comportamento
ispirato al Vangelo, una faticosa ricerca della sequela cristiana, una
difesa dei poveri e degli oppressi, un’opposizione ai potenti di questo
mondo, non certo un’eclatante affermazione di sé.
Vi
sono poi persone che affrontano quello che viene chiamato “martirio” in
modalità non sempre conciliabili con la definizione cristiana: è
definito, per esempio, “martire della libertà” o “della giustizia” anche
chi è caduto in combattimento, magari dopo aver inferto la morte ad
alcuni avversari, oppure persone che si sono date volontariamente la
morte, senza però infliggerla agli altri, in nome di un ideale o come
forma estrema di protesta: il giovane Ian Palach che si diede fuoco in
piazza durante la repressione sovietica della “primavera di Praga”, il
repubblicano irlandese Bobby Sands che spinge il suo sciopero della fame
fino a morirne per ottenere dal governo britannico la qualifica di
detenuti politici e non di delinquenti comuni per sé e per i suoi
compagni di lotta, o ancora i monaci tibetani che affidano al loro corpo
in fiamme l’ultimo grido contro l’annientamento del loro popolo, della
loro cultura e della loro religione ad opera degli americani in Vietnam e
dei cinesi in Tibet.
Ma “martire” – della
carità o della generosità o della solidarietà – viene definito anche chi
si offre di morire per fermare una carneficina più cruenta o al posto
di persone innocenti: si pensi al carabiniere Salvo D’Acquisto di fronte
all’indiscriminata repressione nazista o al francescano Massimiliano
Kolbe che nel lager di Auschwitz cerca di salvare un padre di famiglia
rimpiazzandolo nel bunker della fame.
Infine
c’è l’accezione che ha più pesantemente pervertito il senso della
parola “martire”: quella usata da un certo integralismo religioso
presente nel mondo islamico per definire gli attentatori suicidi.
Persone e gesti che sono agli antipodi del “martire”: se questi è
qualcuno che dimostra come solo chi ha una ragione per morire può anche
avere una ragione per vivere, il “kamikaze” sovente è una persona che
non ha ragioni per vivere e alla quale l’ideologia folle fondamentalista
e qualcuno hanno inculcato una ragione per morire, uccidendo altri
avvinto in una spirale di odio che sa solo seminare violenza.
Benedetto
XVI a Ratisbona richiamò il messaggio della tradizione cristiana: la
fede deve sempre essere ottemperata dalla ragione umana, altrimenti
degenera in fanatismo e violenza o in superstizione e magia. Nessuna
fede può chiedere ciò che è umanamente contro la ragione: la morte di
innocenti in nome di Dio.
Il discepolo di
Gesù di Nazareth invece ama la vita e non la disprezza, non cerca il
martirio come autoimmolazione o come perseguimento di una santità eroica
– sarebbe orgoglio diabolico! – ma di fronte all’esplicita richiesta di
rinnegare la propria fede, può accettare di essere perseguitato e di
consegnare la sua vita fino a morire. Il martire cristiano non è un
“uomo contro” bensì un “uomo per”, una persona che accetta la morte in
nome dell’amore più grande che quotidianamente vive. A volte le
circostanze della persecuzione sono particolarmente aberranti, altre
volte il silenzio, l’oblio, la “normalità” avvolgono sofferenze e morte
inflitte a motivo della propria fede, ma l’atteggiamento del martire
cristiano non muta: chiamato ad amare i nemici, a perdonare i
persecutori, sull’esempio di Gesù, fa della morte violenta inflittagli
un gesto di vita e di amore, l’unico atto che può spezzare la catena
delle vendette. Un gesto di cui magari pochi o nessuno verrà a
conoscenza, parole di perdono che non sempre qualcuno saprà ascoltare,
momenti di angoscia e di dolore lacerante che nessuno saprà lenire, ma
anche attimi di grandezza umana e spirituale, raggi di luce nel buio
della disumanità. In questo senso il martire non sceglie la morte, non
desidera la gloria del martirio, ma decide di vivere fino all’estremo la
vita e ciò che dà senso alla vita: l’amore per gli altri.