Repubblica 28.9.16
Ingrid Betancourt.
Dopo l’accordo governo-guerriglia parla la donna che per sei anni fu tenuta prigioniera dai ribelli
“Ora la Colombia può ricucire le ferite e le Farc non fanno la fine dei narcos”
di Daniele Mastrogiacomo
RIO
DE JANEIRO. «Più che felice mi sento stanca», dice Íngrid Betancourt,
già candidata alla presidenza della Colombia, poi fatta prigioniera
delle Farc per quasi sei anni. «È come avessi atteso tutto questo tempo,
tra speranze e angosce, l’arrivo della pace». La voce della più nota
sequestrata del Paese latinoamericano arriva sul telefono pochi minuti
prima che inizia la cerimonia che ufficializza lo storico accordo tra il
governo del presidente Juan Manuel Santos e la più longeva e
anacronistica organizzazione della sinistra armata del Continente.
Íngrid Betancourt era stata invitata a Cartagena. Ha preferito restare a
Parigi dove vive con i suoi due figli.
Perché non ha voluto presenziare ad un momento così importante per il suo Paese?
«Perché
la mia situazione personale e la realtà che vivo mi spingono a restare
fuori da quel contesto. Ci sono momenti in cui bisogna coinvolgersi in
prima persona e altri in cui è più efficace il tuo contributo di
riflessione».
Quando si trovava in catene in mezzo alla giungla, sola a disperata, ha mai pensato che un giorno sarebbe arrivata la pace?
«Sì,
ci ho pensato più volte. E ci ho creduto. Ero consapevole che il tempo
cambia i contesti e le condizioni. È anche vero che resta la sofferenza.
Ma sapevo che le Farc non potevano continuare ad essere quello che
erano».
Cosa è cambiato?
«Il contesto internazionale. Ciò
che è avvenuto in America latina negli ultimi sette anni ha spiazzato il
gruppo dirigente dell’organizzazione. La sinistra è riuscita ad
arrivare al potere senza ricorrere alla lotta armata. Dal Venezuela
all’Ecuador, dall’Argentina al Perù e al Brasile. Certo, il modello di
governo ha dimostrato grosse falle. Ma questo riguarda la sinistra nel
mondo, il suo progetto, il bisogno di ripensare come coniugare sviluppo e
democrazia».
Perché le Farc hanno firmato l’accordo?
«Il
primo elemento importante è stata la morte di tre alti dirigenti
dell’organizzazione. Manuel Marulanda Veléz, Raul Reyes e Jorge Briceño,
il Mono Jojoy, rappresentavano l’ala militare. Con Alfonso Cano, anche
lui poi ucciso in combattimento, è emersa l’ala politica che fino a quel
momento era rimasta soffocata. La disfatta militare assieme ad una
diversa realtà internazionale sono stati fattori determinanti per il
cambio di rotta».
Rodrigo Londoño, l’attuale capo delle Farc,
l’uomo che ha appena firmato l’accordo di pace, si è fatto promotore
della ripresa dei negoziati. Faceva parte dell’ala politica?
«La
dirigenza del gruppo si sentiva isolata. Aveva capito di non aver più
quell’appoggio e quel consenso che aveva riscosso per tanti anni.
Rischiavano di restare semplici terroristi. O peggio, dei banali
narcos».
Persino Cuba stava trattando
con gli Usa per il disgelo. Quanto ha pesato?
«Tantissimo.
Non è un caso se i tre anni di negoziati si sono svolti all’Avana. La
lotta armata, come progetto inseguito per mezzo secolo dell’ala
militare, si era esaurita. Era fuori contesto. La realtà era cambiata.
Le Farc dovevano cambiare».
Senza un presidente come Santos, la
pace sarebbe stata impossibile. «Santos è il ministro che ha più di
altri combattuto le Farc. È stato il ministro della Difesa del governo
Uribe. La sua scelta, simile a quella di Blair, da Terza via, lo ha
affrancato da quella estrema destra che aveva fomentato per decenni la
guerra in Colombia. Ha creduto nella pace e l’ha ottenuta».
Adesso
inizia la parte più difficile. Quali sono i rischi? « «Esistono ancora
forze e poteri che temono la pace. Perché temono il cambiamento, i nuovi
assetti. Sono gli stessi che hanno contrastato ogni sforzo di dialogo,
ogni timido tentativo di tornare ad una trattativa. Il referendum del 2
ottobre dimostrerà se hanno ancora la stessa forza e influenza ».
Quali sono le sfide che si trova davanti la Colombia?
«Ricostruire un Paese. Ricucire delle ferite profonde, risarcire le vittime, integrare migliaia di guerriglieri».
Un lavoro impegnativo.
«Molto
dipenderà, come sempre, anche dagli Usa. Se dovesse vincere Trump, in
Colombia torneranno molte persone implicate nel conflitto che ha
devastato il Paese negli ultimi 52 anni. La guerra in Colombia è stata
voluta, fortemente, dall’estrema destra americana. L’influenza Usa è
legata anche ai fondi di cui il mio Paese ha necessità per far trionfare
la pace».
Come reagirà la gente?
«L’altra grande sfida è la
politica colombiana. Ancora chiusa in sé stessa, impantanata su visioni
e meccanismi del secolo scorso. C’è bisogno di un salto e in questo il
nuovo partito delle vecchie Farc potrà dare un contributo».
Ha voglia di tornare a casa?
«So
che c’è molta attesa sul ruolo che potrei assumere con il nuovo
contesto. Ho scelto di restare fuori. La Colombia ha bisogno di persone
che riflettano. Ho il privilegio, adesso, di dire quello che penso in
grande libertà. Senza limiti e remore; questo mi consente di dare un
contributo».
Cosa direbbe oggi alle Farc?
«Nulla. Vedo che hanno riflettuto da sole. Hanno scelto di essere un partito alla luce del sole e non un Cartello della droga».