Repubblica 24.9.16
I tre silenzi sulle diacone
di Alberto Melloni
HA
INIZIATO i propri lavori questa settimana la commissione istituita da
papa Francesco sul diaconato femminile: atto interno alla vita della
chiesa ma cruciale per la fisionomia del cattolicesimo romano del secolo
XX.
La commissione, per certi versi, ha un compito “facile”: deve
suggerire solo quando e come “restaurare” un ministero femminile
attestato nel Nuovo Testamento, là dove Paolo saluta la greca Febe,
“diacono della chiesa di Cencre”. “Diacono”, non “diaconessa”, come si
farà al concilio di Nicea, indicando figure che non avevano ricevuto
l’imposizione delle mani.
Nella fluida situazione della prima
comunità neotestamentaria c’è dunque un appiglio lessicale e teologico:
che non basterà a chi sta cercando di creare la “maggioranza ostile” al
papa che è loro mancata in materia matrimoniale.
Tutti, per altro
verso, sono consapevoli che una “restaurazione” del diaconato potrebbe
ridursi ad una operazione sterile. Il concilio Vaticano II “restaurò” ad
esempio il diaconato permanente, come ministero di una chiesa serva e
povera che scioglieva il nesso fra celibato e ministero affermatosi solo
alla fine del primo millennio. L’esito è stato modesto: il diacono è
rimasto l’unico ministro sposato della chiesa latina (fino alla
decisione di Benedetto XVI di ammettere preti e vescovi sposati, ma solo
se provenienti dalla chiesa anglicana) e s’è ridotto al ruolo di un
chierichettone nella liturgia e di capufficio dei volontari fuori da
essa.
La “restaurazione” del diaconato femminile (dunque di
“diacone” ordinate e/o di “diaconesse” prive dell’imposizione delle
mani) potrebbe fare la stessa fine: una onorificenza per suore e per
nonne, senza impatto sulla riforma e sulla missionarietà della chiesa.
Eppure
la commissione sulle diacone potrebbe segnare anche la rottura di tre
assordanti silenzi che soffocano le chiese da decenni.
Il primo è
il silenzio sul sacerdozio che tutte le donne e tutti gli uomini
battezzati hanno già: quello che la chiesa latina chiama sacerdozio
comune (in opposizione al sacerdozio ministeriale che viene dal
sacramento dell’ordine). La stantia cultura che rivendicava la
promozione dei “laici” — sudditi desiderosi di essere mobilitati e
promossi — che si è rigenerata nell’attivismo e nel clericalismo dei
movimenti, non è ancora stata scalzata da una teologia sulla dignità di
quelli che il codice di diritto canonico chiama Christifideles. Se santa
Febe facesse un miracolo, la commissione o un sinodo sul ministero
potrebbero essere l’occasione per interrogarsi su questo.
L’altro
riguarda il ripensamento teologico di una espressione — in persona
Christi — grazie alla quale la cultura della subordinazione femminile
del mondo antico ha vinto la concezione cristiana del battesimo in
Cristo nel quale non c’è più “né maschio né femmina”. Molte chiese si
sono liberate da quel paradigma alla fine del secolo XX ordinando
pastore, prete e vescove cristiane in possesso dei doni di Dio necessari
alla santità di una comunità: la chiesa cattolica reagì alla
accelerazione con una chiusura che voleva essere “definitiva” e
dichiarando nel 1994 che il tema era “indisponibile” alla chiesa. La
successione apostolica al maschio-Gesù degli apostoli- maschi vincolava
la capacità di agire in persona Christi a un solo genere: come se la
mascolinità di Gesù non fosse una componente necessaria alla verità
dell’incarnazione, ma un privilegio sessista. Ciò che è normativo di
Gesù non è la sua mascolinità dichiarata dalla nudità della croce (il
velo del crocifisso serve a nascondere la circoncisione non il sesso):
ma la croce e la morte di croce alla quale ogni cristiano, maschio o
femmina, è unito nel battesimo trinitario. Portare le donne nella sfera
dell’unico ordine sacro romperebbe una reticenza e ristabilirebbe un
equilibrio necessarissimo alla cristologia.
Il terzo silenzio con
cui la commissione sul diaconato femminile si misura è quello sul
sacerdozio ministeriale maschile ora in essere, prigioniero di un misero
duello di retoriche celibatarie e anticelibatarie. Oggi in larghe parti
della chiesa si vive una alternativa fra celibato ed eucarestia: perché
in assenza di celibi da ordinare, si condannano le comunità a vivere
senza eucarestia: una alternativa in cui un naso sano sente odore di
zolfo. E che va affrontato senza furbizie e senza superficialità: non
dal papa solo, ma dai vescovi che non possono nascondersi dietro un
dito.
I non pochi nemici di Francesco, giovani o vegliardi, non
sono contrari a che questa discussione si apra: sperano l’arcipelago
antibergogliano si palesi, man mano che si avvicinano le due scelte — la
nomina dell’arcivescovo di Milano e del vicario di Roma — dalle quali
dipenderà non solo il futuro conclave, ma anche l’unità presente d’una
chiesa. Che il papa chiama a non essere una federazione pelagiana di
attivismi, ma una comunione di quelli che il Vangelo definisce “servi
inutili”, e che sono gli unici indispensabili.